Anch’io, come tutti, ho avuto la mia crisi di mezza età. Attorno ai quarant’anni ho iniziato a domandarmi se questo affannarsi tra parole, libri e immagini potesse avere un senso o se non stessi perdendo il mio tempo in occupazioni inutili. Magari avrei fatto meglio a scegliermi un altro mestiere: più concreto, tangibile, pragmatico. Rimuginavo i miei dubbi in un periodo che, per qualche motivo, coincideva con un’assenza abbastanza prolungata del signor Kenobi dall’Italia. Fu proprio per questo – per via dell’eccesso di confidenza di norma favorito dalla distanza fisica – che mi lasciai sfuggire il malcontento in un messaggio che ebbe risposta pressoché immediata. Sono poche righe, le trascrivo per intero: «Non c’è professione che a un certo punto non finisca per apparire vana e, come lei sa, la letteratura non fa eccezione.
L’unico vantaggio che dalla letteratura può venire sta nella capacità di comprendere le sofferenze e le gioie degli altri senza doverle vivere direttamente. Comprensione, le ripeto, non immedesimazione, che è una specie di atto virtuoso, a volte compiaciuto. Molti hanno cognizione dell’amore solo quando si innamorano, ad altri basta aver letto Il Maestro e Margherita. Ma se non serve a questo, allora ha ragione lei: veramente la letteratura non serve a niente».
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