Il dono delle lacrime
«Lei piange per i suoi morti?», mi chiese una volta il signor Kenobi
«Lei piange per i suoi morti?», mi chiese una volta il signor Kenobi. Era l’inverno del 2013, il funerale di mio padre si era celebrato nell’aprile di quell’anno. Dal Giappone, o da chissà dove, mi era arrivato un tempestivo messaggio di condoglianze e in un paio di altre occasioni, nei mesi successivi, non erano mancate pudiche richieste di informazioni sul mio stato d’animo. Il lutto pareva un argomento perfetto per la danza di omissioni e allusioni che contraddistingueva il nostro rapporto. Non mi aspettavo una domanda così diretta, quasi brutale nella sua essenzialità. Risposi che sì, avevo pianto come piangono tutti nel momento della perdita. Avevo pianto per i miei genitori, lo ricordavo bene.
La replica arrivò per iscritto, a distanza di tempo, quando ormai ritenevo che il discorso fosse chiuso. «Diversamente da lei – confessava il signor Kenobi – non mi è mai capitato di piangere per una morte troppo recente. Ma ci sono giornate, che solamente io conosco, nelle quali mi chiudo in una stanza per passare in rassegna le persone che non ci sono più, e piangere per loro. Ho imparato a farlo quando ero ancora bambino e non ho mai smesso. È una buona abitudine, provi a prenderla anche lei». Poi, quasi a dissipare le mie perplessità: «Non è disperazione, mi creda. È amore».
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