L’ispettore si stava insospettendo. «Chi sono tutte queste persone? Perché il suo amico era in contatto con loro? E come mai c’è di mezzo anche lei?», mi chiese con un tono che suonava fin troppo fastidioso e brusco. «Non sono persone, sono i personaggi che gli scrittori usano per parlare di sé», risposi, cercando di evitare l’inflessione didascalica nella quale cado in queste occasioni. Il poliziotto scuoteva la testa, senza staccare gli occhi dal cartoncino. «Come se si facessero un autoritratto dopo essersi messi una maschera», azzardai.
«Tipo un nickname?», replicò l’ispettore e dentro di me dovetti ammettere che la similitudine era adeguata. «Il signor Kenobi stava lavorando a un’antologia sull’argomento, questo doveva essere un abbozzo del sommario», proseguii. «Sì, ma perché ha inserito anche lei? Lei mica è un personaggio, è qui davanti a me…», incalzò il mio interlocutore. «Non lo so, ma come vede il signor Kenobi aveva incluso anche sé stesso», dissi. «Dopo però ha cambiato idea e ha messo lei. Come se lo spiega?». La domanda era inevitabile, lo capivo. «Non me lo spiego – risposi –, ma vede: la letteratura è anche un gioco, solo che le regole cambiano di continuo e l’autore è l’unico a conoscerle». Sollevò la testa. Se non mi arresta adesso, pensai, non mi arresta più.
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