John Polkinghorne: quando un fisico si toglie il camice e resta l’uomo
Diceva che la fede non deve terrorizzare la scienza, e che la scienza non deve umiliare la fede. Diceva: «Il mondo è troppo grande per poter essere letto con un solo alfabeto»

Ci sono storie che, appena le incontri, sembrano una svolta. Perché ti costringono a fermarti, a respirare, a chiederti: “E io? Cosa farei al suo posto? Avrei il coraggio?”. La vita di John Polkinghorne è una di queste. E non perché sia stata spettacolare: lo è stata in un modo più sottile, più radicale. Nel modo in cui cambia il baricentro delle cose. Polkinghorne nasce nel 1930, figlio di un impiegato delle poste, e cresce con una curiosità tranquilla, di quelle che non fanno rumore ma scavano. Diventa un fisico delle particelle, si ritrova nei laboratori di Cambridge nel momento in cui il mondo sta cambiando pelle, circondato da colleghi che parlano di simmetrie, forze fondamentali, modelli che sembrano labirinti. Lavora negli stessi corridoi dove hanno camminato Dirac e Rutherford, e per anni si muove con quella severità gentile tipica dei fisici inglesi.
Eppure, mentre contribuisce in modo decisivo allo sviluppo della fisica delle particelle, qualcosa dentro di lui comincia a chiedere spazio. Non un dubbio, non una crisi. Una domanda. Che cosa rimane dell’uomo, quando togliamo il camice?
Io, nelle mie ricerche per questa rubrica, mi ritrovo spesso davanti a questa domanda. Perché ogni volta che apro un archivio, o leggo una lettera antica, mi accorgo che dietro ogni scoperta c’è sempre un essere umano che tenta di capirsi. Non capirsi “scientificamente”: capirsi come persona. E a volte mi rendo conto che la parte che mi interessa davvero è proprio questa.
Polkinghorne, a un certo punto, questa domanda non la tiene più a margine. Non la mette sotto un tappeto di calcoli. La lascia crescere. E fa ciò che pochissimi hanno osato fare: si dimette da Cambridge, rinuncia a una carriera prestigiosa, e diventa sacerdote anglicano. Non come hobby, non come rifugio. Come seconda vita.
Questa decisione, che ancora oggi fa sollevare sopracciglia, è stata invece un atto di coerenza. Perché Polkinghorne non ha mai detto: “La scienza non basta”. Ha detto qualcosa di infinitamente più adulto: “La scienza risponde ad alcune delle domande. Non a tutte. E io voglio capire anche le altre”. Quando ho scoperto questa frase, rovistando nei materiali delle sue conferenze e nei racconti dei suoi studenti, mi sono immaginata il silenzio che deve aver avuto intorno. Un silenzio pieno di resistenze, di giudizi, di perplessità. Eppure lui non si è mai difeso. Ha detto solo che era la cosa giusta.
E allora penso a me, alle mie piccole e grandi ricerche personali, a quello che cerco quando vado negli archivi dei fisici, a cosa inseguo davvero. Non cerco mai solo la teoria: cerco la persona.
Cerco il punto dove scienza e spiritualità diventano due modi diversi di fare la stessa cosa: tentare di capire chi siamo.
Polkinghorne, nel suo modo pacato, è diventato uno dei più grandi promotori del dialogo tra scienza e fede. Non un diplomatico: un ponte vivente. Diceva che la fede non deve terrorizzare la scienza, e che la scienza non deve umiliare la fede. Diceva: «Il mondo è troppo grande per poter essere letto con un solo alfabeto». E questa frase, ogni volta che la rileggo, mi sembra una carezza. Si occupò di temi difficili – la natura del tempo, la libertà, la coscienza –, e ogni volta riportava tutto all’essenziale: la complessità non è un nemico, è il luogo dove abitiamo.
E qui entra la mia ricerca, la mia strada lenta e ostinata: più leggo questi uomini, più capisco che dietro la parola “scienza” c’è sempre un essere umano che non vuole rinunciare alle sue domande. E che dietro la parola “spiritualità” c’è sempre un essere umano che non vuole rinunciare alla sua intelligenza. Ed è lì, in quello spazio comune, che nascono le storie che più mi emozionano. Polkinghorne non ha fornito soluzioni: ha aperto domande. E questa, a pensarci bene, è la forma più alta di rispetto verso il mondo.
E allora arrivo, come ogni volta, alla domanda finale. Una domanda più ricca, più densa, più personale, perché questo tema lo richiede. Tu, oggi, dove senti che si incontrano le tue domande scientifiche e quelle interiori? Nel lavoro? Nel modo in cui guardi chi ti è vicino? Nel dubbio che ti accompagna da tempo, o nel bisogno di cambiare qualcosa? Oppure in un gesto minuscolo che fai senza pensarci, ma che ti tiene in equilibrio?
Raccontamelo.
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