Ne abbiamo viste, nella recente vicenda referendaria. Di tutti i colori. Scrutatori che chiedevano agli elettori, al momento del loro arrivo al seggio, quali schede volevano ritirare, come se si trattasse di un menu al ristorante e non dell’esercizio di un diritto politico. Persone cui sono affidate cariche pubbliche che hanno esortato all’astensione, in aperto contrasto con la Costituzione, il cui articolo 48 precisa che l’esercizio del voto (di ogni voto!) è dovere civico, o che – con scarso rispetto per la dignità della funzione svolta dagli uffici elettorali e dai loro componenti – si sono fatte vedere nei dintorni delle sezioni elettorali, senza registrarsi e dunque astenendosi dal voto stesso. Esponenti di primo piano della politica (termine, non dimentichiamolo, che significa attenzione per la città, per la cosa pubblica) che si sono vantati di farsi riprendere o di auto-riprendersi in località turistiche marine o montane, a significare una sorta di distanza incommensurabile tra il “civico” e il “ludico”. Per non parlare poi della disputa tra leader di partito circa il significato politico generale dell’esito delle votazioni referendarie (sostegno alla maggioranza per via del numero di astensioni o manifestazione di sfiducia da parte dei 12 milioni di sì?): il referendum è esercizio di una forma di democrazia diversa da quella meramente rappresentativa, e sarebbe bene che i partiti rispettassero tale diversità. Proviamo a fissare alcuni punti che potremmo chiamare di buonsenso. L’importanza dei referendum stava e sta, anche e soprattutto, nel favorire una discussione nazionale (per quanto acerba, urlata, riduttiva) su aspetti importanti della vita in società: senza di esso, tale discussione sarebbe ancora più acerba e riduttiva, oppure inesistente, lasciata alla propaganda di regime o del regime, quale che esso sia, oppure a voci fuori dal coro (quelle fuori davvero, non quelle per le quali una tale auto-qualificazione sembra funzionale a depistare l’ingenuo telespettatore o internauta...), strutturalmente incapaci di valicare la barriera dell’irrilevanza o della marginalizzazione. Che il raggiungimento del quorum, alla luce delle tendenze che hanno fatto registrare alle ultime consultazioni generali – quelle europee – l’astensione di un elettore su due, fosse arduo lo si sapeva, soprattutto dopo che una decisione della Corte costituzionale aveva tolto dal voto la proposta referendaria più sentita dall’opinione pubblica, cioè l’autonomia differenziata per le regioni a statuto ordinario: una sentenza che non ha mancato di suscitare perplessità tra i commentatori, in quanto non è stato spiegato perché sia inammissibile chiedere agli elettori se sono o meno d’accordo con una legge che dà attuazione a quello che non è un obbligo ma una mera possibilità che la Costituzione prevede. Da queste considerazioni deriva che l’8 e 9 giugno non c’è stato qualcuno che ha “vinto” e qualcun altro che ha “perso”. Anche nell’esercizio dei diritti politici, ciò che conta (evocando De Coubertin) è partecipare. Almeno due tra i cinque quesiti, proponendo all’elettore di ripristinare norme che secondo i promotori erano state poco saggiamente abrogate dal legislatore (cittadinanza e sicurezza sul lavoro), non avevano nulla di “ideologico”, ma costituivano – e l’esito differente dei sì e dei no lo ha dimostrato – un quesito vero, sul quale, a seconda dell’opinione del votante, consentire o dissentire. Un plauso, dunque, a chi ha partecipato, quale sia stato il suo voto.
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