Perché tanta paura a trattare (e festeggiare) la morte
Da piccoli facciamo molti pensieri sulla morte, e questo ci fa fare un po’ di matematica. Poi da adulti è tutto più complicato

Da piccoli facciamo molti pensieri sulla morte. C’è di positivo che questo fa fare un po’ di matematica. Quanti anni aveva il nonno quando è morto? 73 E quanti anni avevi tu quando è morto? 38 Quando io avrò 38 anni tu mamma quanti anni avrai? 79 E quando avrò 79 anni tu quanti anni avrai? 102 E quando io ne avrò 102 tu mamma quanti ne avrai? Sarò morta. Allora, io, un anno prima della tua morte, quando sarai vecchina e sottile, ti piegherò tutta fino a diventare piccola piccola e ti metterò nella tasca dei miei pantaloni e ti porterò sempre con me.
Se la morte è certa, il modo di affrontarla è un tema dei vivi e, in quanto tale, muta a seconda dei contesti. In Occidente, seguendo spesso più le nostre paure che quanto suggerito dalla religione, abbiamo nascosto la morte negli ospedali, nei cimiteri, in luoghi che da Napoleone in poi sono fuori dalle mura dei centri abitati. Philippe Ariès parla di “morte proibita”: ospedalizzata, nascosta. Anche ciò che si può e non si può fare in un cimitero è un tema dei vivi e, in quanto tale, muta a seconda delle persone che, in quanto tali, la vedono sempre diversamente su tutto ed in particolare su cosa sia opportuno fare in un cimitero. Per esempio, in questi giorni a Bergamo, sulla facciata del cimitero Monumentale, brillano dei festoni colorati che sono diventati un caso politico. I festoni sono parte di un’installazione che, nell’idea degli artisti, vuole “aprire nuovi sguardi tra terra e cielo”. Non tutti l’hanno presa bene: in una lettera pubblica c’è chi invoca “il rispetto dei defunti e della storia cittadina” (così colpita durante la pandemia) perché “addobbare a festa un luogo che rappresenta dolore e memoria appare una scelta quantomeno inopportuna”.
L’addobbo fa festa mentre i morti non si festeggiano, si compiangono. Eppure, l’antropologia ci racconta che non è per forza così. In Madagascar, gli studi di Maurice Bloch (e di altr*) raccontano di come ogni alcuni anni, le famiglie pratichino il Famadihana (la "svolta delle ossa"), riesumando i resti del defunto, avvolgendoli in nuovi sudari, portandoli in processione e danzando con essi. Nei Días de Muertos di origine messicana, i defunti tornano spiritualmente in famiglia e gli si preparano altari e offerte commemorative. A poche decine di chilometri da Bergamo nella provincia di Verona, a Bovolone, la polemica politico funeraria persiste ma questa volta intorno all’opportunità di stanziare fondi pubblici per creare dentro il cimitero comunale una zona per le sepolture di persone di fede non cattolica. A qualcuno l’idea non piace, “non si mischiano i defunti di religioni diverse” e invoca una legge nazionale contro la promiscuità nei cimiteri.
Abbiamo giustamente paura di cosa sarà di noi quando moriremo e così litighiamo in vita per organizzare lo spazio dei morti che un giorno sarà anche nostro. L’antropologia ci insegna che sono molti e diversi i modi in cui le comunità affrontano l’esperienza universale della morte, esperienza che ci accumuna tutti azzerando ogni differenza di genere, classe, identità. Possiamo solo auspicarci di imparare a vivere insieme nella diversità per continuare a farlo anche dopo. Quando anche noi ce ne andremo, piegati piccini piccini nelle tasche di qualcuno.
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