mercoledì 16 gennaio 2013
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​Il fervore della campagna elettorale in corso ha fatto passare in secondo piano le profonde, ancorché tardive, osservazioni di Jean Claude Juncker, il presidente uscente dell’Eurogruppo: non c’è equità in questa Europa, dilaniata da una disoccupazione inaccettabile e dalle divisioni tra presunti buoni e cattivi innescate dall’arroganza dei Paesi del Nord. L’amarezza che traspare dal suo discorso è comprensibile, in quanto, a seguito della crisi finanziaria, si è puntualmente verificato quanto profetizzato dagli euroscettici, ovvero che la tenuta della moneta unica avrebbe vacillato all’insorgere di choc di notevole entità. Lo spread che ci ha accompagnato negli ultimi anni è la riprova della intollerabile lentezza del processo di integrazione politica europea e dell’eccesso di ottimismo di chi pensava che saremmo stati un’area valutaria ottimale sempre più integrata per effetto automatico dell’introduzione della moneta unica. I costi derivanti dallo spread non sono soltanto di natura squisitamente finanziaria, ma anche economici, sociali e psicologici, con conseguenze nefaste su crescita, equità e distribuzione del reddito. Le conseguenze negative dello spread sul benessere dei cittadini sono molteplici, come abbiamo evidenziato in un nostro lavoro pubblicato nel mese di settembre (The Spread Nightmare: Financial Crises and Happiness, Ceis working paper n. 252). La correlazione negativa tra felicità e timore di crisi finanziarie è ulteriormente suffragata dall’evidenza medica delle conseguenze di natura psicologica delle crisi finanziarie che riducono la produttività e si ripercuotono negativamente sulla salute delle persone. La riduzione dello spread di questi giorni è pertanto benvenuta, anche se l’enfasi sui risparmi è mal posta in quanto si tratta piuttosto di riduzione di costi speculativi che non avrebbero dovuto avere ragione di esistere. C’è da domandarsi seriamente se il rapporto tra finanza ed economia reale sia il migliore dei mondi possibili e se possiamo far dipendere i nostri destini da quest’ottovolante che adesso, per nostra fortuna, ma con la stessa meccanicità di prima, ha preso la direzione speculativa contraria. I passi necessari per cambiare sono stati chiaramente indicati dai rapporti delle più autorevoli commissioni indipendenti (Vickers e Liikanen) ma pare che le agende dei partiti che si presentano alle elezioni non tengano in debito conto questo problema fondamentale. Con la chiarezza e lucidità che ha sempre contraddistinto i suoi scritti, Luigi Spaventa, in un articolo del 2003, riproposto dal Corriere della Sera il giorno dopo la sua scomparsa, aveva illustrato alla perfezione i costi e benefici della moneta unica. L’impennata dei prezzi verificatasi nel nostro Paese non era da imputarsi all’introduzione dell’euro, bensì all’uso strumentale effettuato da comportamenti collusivi nei numerosi settori caratterizzati da rendite oligopolistiche. A fronte del costo di non poter più usare la leva del tasso di cambio per correggere la dinamica distorta dei prezzi relativi, i benefici per l’Italia consistevano proprio nel poter finanziare il debito sovrano agli stessi tassi della Germania. E così dovrebbe essere in un’unione monetaria pienamente credibile, dove non sussistano condizioni di rischio di default né di svalutazione. D’altro canto, potremmo aggiungere che il chiaro beneficio per la Germania era ed è quello di poter evitare le continue rivalutazioni della propria moneta, verificatesi in serie a partire dal crollo di Bretton Woods. Con l’avvento dello spread, paradossalmente solo la Germania ha mantenuto invariati i benefici. Non dobbiamo quindi sorprenderci che il divario Nord-Sud sia aumentato e con esso le tensioni sociali dovute alla disoccupazione insostenibile e al comprensibile malcontento generato dal fatto che le risorse generate dalla riduzione delle spese per sicurezza, istruzione, ricerca e sanità anziché essere destinate pienamente a correzioni fiscali sono state in parte, di fatto, trasferite agli speculatori per effetto dello spread. Rileggere quell’editoriale di Spaventa ci lascia un senso di disagio e l’amara constatazione che la politica europea non ha prestato la dovuta attenzione ai veri problemi, sprecando dieci anni preziosi. Auguriamoci che questo vento di elezioni, in Italia ma anche e soprattutto in Germania, non distolga i politici dai problemi dell’Europa, che richiedono una accelerazione del processo di integrazione che dovrà, per essere veramente efficace, passare inevitabilmente attraverso la radicale modifica del Fiscal Compact e per l’introduzione rapida degli eurobond. Quanto a noi, tutte le forze politiche presentatesi alle elezioni hanno il dovere di spingere per trasformare l’ansimante "pulmino dei 27" in un’Europa molto più keynesiana. La banca centrale Usa ha rotto gli indugi riconoscendo che il suo ruolo va molto oltre quello della stabilità monetaria e dandosi un obiettivo limite sul tasso di disoccupazione. È ora che anche nell’Unione Europea le istituzioni che nell’economia globalmente finanziarizzata hanno maggior potere mettano direttamente al centro dei loro obiettivi il bene comune dei cittadini.
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