venerdì 25 marzo 2011
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Nel lunghissimo, sanguinoso domino delle rivolte arabe tocca ora alla Siria sperimentare grandi dimostrazioni di protesta popolari e contare i morti, uccisi nelle piazze dalle forze di polizia. Al di là del lugubre balletto sulle cifre reali, il dato politico che emerge è la volontà del regime baathista, al potere dal 1963, di reprimere duramente le proteste, avviando in parallelo un dialogo con le forze tribali insoddisfatte. Bashar al-Assad non è Mubarak o Ben Ali, e a Damasco non siede un presidente autocrate, bensì il capo di una dittatura complessa e articolata, all’interno della quale i gruppi più rigidi hanno in passato posto un freno alle velleità riformiste dello stesso presidente. Riforme che forse ora verranno rilanciate, sia pure calate dall’alto.Siamo al cospetto di una dittatura che non è solo politica: al di sotto dell’ufficialità del potere, rappresentato dal partito della resurrezione araba (il Ba’ath), vi è la realtà di una comunità estremamente minoritaria sul piano numerico – gli alawiti – che controlla buona parte delle forze armate e del partito unico. La durezza sempre dimostrata da Damasco – oggi come in passato – verso tutti gli oppositori si spiega anche così: per gli alawiti, riformare il sistema significherebbe probabilmente rischiare di finire travolti dal cambiamento. Meglio quindi cercare di limitare cambiamenti e aperture, imponendo un controllo ossessivo sui cittadini e sul dibattito politico. Nel 1982, il padre dell’attuale presidente e creatore della Siria attuale, Hafez, non esitò a distruggere una città del suo Paese, bombardandola, per estirpare l’opposizione islamica radicale. Un «esempio» ancora vivo.Ma, ben più che a livello interno, le tensioni siriane preoccupano per le conseguenze regionali: la Siria è uno degli snodi fondamentali delle vicende mediorientali: ciò che accade a Damasco può riverberarsi drammaticamente in tutte le capitali vicine. Innanzitutto in Israele, di cui la Siria rappresenta l’arci-nemico e con cui non è mai stata firmata una pace. A Gerusalemme e a Tel Aviv, nessuno piangerebbe per il crollo del Ba’ath; ma quanto verrebbe dopo non sarebbe necessariamente meglio per lo Stato ebraico. E soprattutto, nulla nuocerebbe ai manifestanti quanto un sostegno – anche solo verbale – del governo israeliano. Meglio quindi che Gerusalemme non faccia e dica nulla.E oltre al nodo irrisolto del conflitto israelo-palestinese in quasi tutte le partire regionali Damasco è un attore di peso: è la potenza che esercita ancora la maggior influenza sulla fragile democrazia libanese; assieme all’Iran dell’ultraradicale Mahmoud Ahmadinejad sostiene le milizie sciite radicali di Hezbollah e si è opposta ai governi più moderati e filo-occidentali; mantiene buoni rapporti con Mosca, suo storico protettore, e sta sviluppando crescenti legami con la Turchia di Erdogan, sempre meno legata all’Occidente e sempre più autonoma e attenta alle ragioni dei suoi vicini regionali. Né infine può essere dimenticato il ruolo che svolge nelle vicende irachene.Insomma, in un mondo arabo scosso da continue rivolte, con la guerra in Libia e con l’Egitto lungi da aver consolidato un nuovo assetto dopo la caduta di Mubarak, la debolezza siriana sembra più fonte di inquietudine che di compiacimento internazionale. O per lo meno, questo è quanto segnala la prudenza delle reazioni occidentali. In una Washington come stordita dai troppi impulsi (e dai puzzle irrisolti) che arrivano dal Medio Oriente, c’è chi comincia a dire che una politica di dialogo per favorire le riforme in Siria sia più saggia della "demonizzazione" del regime attuata in passato. Ed è probabilmente quello che si augura la numerosa minoranza cristiana presente in Siria: un crollo improvviso del regime, per quanto detestato, esporrebbe i cristiani agli attacchi del radicalismo islamico. Le decine di migliaia di profughi iracheni rifugiatisi in terra siriana sono una testimonianza eloquente e assai convincente.
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