venerdì 24 ottobre 2008
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È ormai un'emergenza a livello internazionale, anche se non riesce a fare notizia come l'allarme per i cambiamenti climatici o l'incubo della crisi finanziaria. Stiamo parlando del mancato rispetto della libertà religiosa in molte parti del mondo, un fenomeno sempre più grave che ha assunto dimensioni inquietanti. Le violenze degli ultimi mesi contro le comunità cristiane in India e in Iraq rappresentano soltanto la punta di un iceberg molto più vasto e profondo. La conferma ci viene dal Rapporto 2008 sulla libertà religiosa nel mondo, stilato dall'associazione "Aiuto alla Chiesa che Soffre", presentato ieri a Roma ed in altre capitali europee. Dati e cifre impressionanti che riguardano oltre 60 Paesi nei quali il diritto alla libertà religiosa è negato o fortemente limitato. Nell'elenco figurano i Paesi comunisti (Cina, Corea del Nord, Cuba), gli Stati a regime dittatoriale come il Turkmenistan e Myanmar, ed un gran numero di Paesi islamici, a cominciare dall'Arabia Saudita dove ai non musulmani è proibito professare la propria fede anche in privato. Violenze e soprusi sono purtroppo cronaca quotidiana in Nigeria, Sudan, Eritrea. Ma il continente cui va il triste primato dell'intolleranza religiosa è l'Asia, con ben 25 Stati messi sotto accusa, in prima fila Pakistan e Indonesia dove alle limitazioni e alle repressioni di carattere legale (fino alla condanna a morte) s'aggiunge il clima di odio sociale nei riguardi delle altre fedi. Risulta evidente che l'esercizio concreto della libertà religiosa costituisce il test più significativo del grado di democrazia che vige in una nazione. E questo perché il diritto a professare la propria fede è il fondamento di ogni libertà. Riguarda la dignità dell'uomo in quanto tocca il suo rapporto con Dio, la sfera più intima della persona che qualsiasi potere o istituzione deve rispettare. «La libertà trova la sua piena cittadinanza nella religione», scriveva già Lattanzio all'indomani dell'Editto di Costantino. Un'affermazione che dopo quindici secoli mantiene tutta la sua straordinaria attualità. Là dove anche un solo credente viene perseguitato a causa della sua fede è l'intero sistema politico e sociale che risulta traballante. E quando non si tratta di episodi isolati ma di una persecuzione sistematica, come avviene in queste settimane contro le comunità cristiane nello Stato indiano dell'Orissa o nella regione di Mosul in Iraq, l'opinione pubblica internazionale non può far finta di niente. Quel che risulta insopportabile è la sostanziale impunità dei violenti fanatici che aggrediscono e uccidono gente inerme solo perché professa un'altra religione. L'Europa, culla della libertà, dovrebbe far sentire di più la sua voce, gridare il suo sdegno e la sua condanna ed esigere che si metta fine ad una simile barbarie. «Quando vedo la pulizia etnica in atto contro i cristiani del mio Paese mi sembra di leggere le cronache dei massacri subiti dagli armeni e dai caldei durante la Prima guerra mondiale», ha detto l'arcivescovo iracheno di Kirkuk, monsignor Louis Sako. Succede (è accaduto in questi giorni in Italia) che i crimini del passato vengano ancora affrontati nelle aule dei tribunali dove si chiede il risarcimento delle vittime. Forse varrebbe la pena usare la stessa energia e la stessa caparbietà nel riconoscere i crimini del presente, quelli che vengono compiuti ogni giorno contro le minoranze cristiane sparse per il mondo.
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