martedì 22 dicembre 2015
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Le elezioni svoltesi domenica in Spagna hanno posto fine al bipartitismo parlamentare (di cui la Spagna era diventata il principale esempio da ormai tre decenni, proprio mentre quell’assetto veniva incrinato nella sua culla, la Gran Bretagna) e hanno incrinato la proverbiale stabilità della monarchia parlamentare creata dalla Costituzione del 1978. Mai prima d’ora un partito aveva 'vinto' così male come il Partito Popolare, arrivato primo con il 28% dei voti e 123 seggi su 350. E occorre tornare al 1979 per trovare un assetto parlamentare quadripartitico (senza contare i partiti regionali, soprattutto catalani e baschi). Si apre ora un complesso negoziato fra le forze politiche, che ha già fatto parlare di 'italianizzazione' della politica spagnola e che metterà alla prova la cultura 'ipermaggioritaria' dei principali partiti. Ai due partiti più forti, i popolari e i socialisti (giunti secondi, questi ultimi, con il 20% dei voti e 90 seggi, il loro peggior risultato dal ritorno alla democrazia), manca del tutto una cultura della coalizione: non solo una cultura della grande coalizione – come quella tipica del mondo austro-tedesco, ove i due principali partiti si alleano quando non sono possibili altre soluzioni –, ma anche una cultura della' piccola coalizione, in cui un partner minore si associa a uno dei partiti principali. Occorrerà dunque vedere se e come i partiti spagnoli sapranno adattarsi alle sfide del quadripartitismo e della frammentazione politica. Ma se questo è l’assetto complessivo che emerge dal voto, la grande novità – visibile già nei risultati delle elezioni amministrative dello scorso maggio – sono le due forze politiche emergenti, che rifiutano entrambe il marchio 'partito'. Podemos (Possiamo) è la variante ispanica di un prodotto diffuso in varie parti d’Europa, e in fondo piuttosto antico: è l’estrema sinistra, che riemerge in tutte le varianti che il marxismo e il postmarxismo hanno espresso nell’ultimo secolo. Un singolare mix di trotzkismo, anarchismo, chavismo e sinistra socialdemocratica: quasi una fiera campionaria dei fallimenti dell’estrema sinistra nella sua lunga e non gloriosa storia. Nato dal movimento degli indignados, prodotto dalla crisi economica nel suo momento peggiore, Podemos è cresciuto grazie ai devastanti scandali per corruzione che hanno scosso i partiti tradizionali. Gestito da un gruppo di ricercatori universitari da tempo attivi più come agitatori delle università pubbliche che come studiosi affermati, maschera le vecchie ricette della sinistra radicale sotto uno stile comunicativo nuovo. Ciudadanos (Cittadini), invece, è la riproposizione su scala nazionale di un movimento liberale nato inizialmente in Catalogna in opposizione al settarismo nazionalista locale e a difesa della doppia identità – catalana e spagnola al tempo stesso – della regione oggi secessionista. Un po’ simile al partito liberale inglese dei tempi di Clegg, Ciudadanos è stato il tentativo, condotto negli scorsi mesi, di rinnovare l’offerta politica moderata, così come Podemos tentava di rielaborare (all’estrema sinistra) l’identità della izquierda spagnola. Ma se i percorsi di Ciudadanos e Podemos sono diversi, essi non convergono solo nella richiesta di rinnovamento e nella critica al bipartitismo e alla corruzione e nella personalizzazione delle leadership di Iglesias (P) e Rivera (C) . Essi sono anche esempi della nuova politica partorita dalla grande crisi economica post-2008 e hanno qualcosa in comune con alcuni movimenti politici che hanno avuto successo in Europa negli ultimi anni: dal Movimento 5 Stelle a Syriza, dai Pirati tedeschi e svedesi ad alcuni movimenti meno noti apparsi nell’Europa centro-orientale. Il loro archetipo inconsapevole è in fondo la Fidezs, il partito dei 'giovani liberali' dell’attuale premier ungherese Viktor Orban, che prima di trasformarsi in un partito conservatore tradizionale (con venature autoritarie) era un movimento libertario in cui fino al 1993 non erano ammessi iscritti con più di 35 anni. Si tratta di partiti per molti aspetti 'generazionali', che capitalizzano la rottura delle nuove generazioni, più penalizzate dalla crisi economica, con le vecchie, meglio tutelate dai residui del Welfare State tradizionale. Non hanno solo leader giovani, ma un’intera dirigenza sotto i 40 anni, che si muove con grande destrezza sui nuovi media e pare a disagio con quel che resta della politica novecentesca, anche se talora ne riprende anche i contenuti superati dalla storia (si pensi a Podemos e a Syriza). L’incapacità delle vecchie élites politiche di rinnovarsi e di riprodurre i processi di socializzazione politica del Novecento ha insomma prodotto una sorta di 'efebocrazia' incipiente. Del resto è già accaduto che i tempi di grandi sommovimenti abbiano visto l’apogeo di leader giovanissimi: dopo la Rivoluzione francese l’Europa fu il teatro della lotta fra Napoleone (comandante dell’armata d’Italia a 27 anni) e William Pitt il giovane (che era diventato premier inglese proprio all’età in cui il grande Còrso varcava le Alpi).
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