domenica 7 febbraio 2010
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Il rinnovato ultimatum che il gruppo maghrebino (Aqim) di al-Qaeda ha diffuso per la liberazione dell’italiano Mario Cicala e della moglie Philomene Kaboré, rapiti in dicembre in Mauritania, e per quella del cittadino francese Pierre Camatte, contiene una notizia buona e una notizia cattiva. Quella buona è che il rapimento si prolunga, quindi è possibile presumere e sperare che i terroristi non cerchino il colpo dello choc, com’è successo tante volte in Iraq o in Afghanistan, ma puntino a tener vivi gli ostaggi per trattare e ottenere una qualche forma di "riconoscimento" politico. La cattiva notizia è che i qaedisti maghrebini si sentono abbastanza sicuri da sfidare una lunga serie di governi e Paesi (non solo quelli africani ma anche Italia e Francia, per non dire di Usa e Gran Bretagna, mobilitati da poco nello Yemen e comunque in allarme) assai più potenti di loro.Questo conferma la caratteristica storica, e di certo la più insidiosa, dell’organizzazione fondata dallo sceicco Osama Benladen nei primi anni Ottanta, all’epoca dell’invasione sovietica dell’Afghanistan: la capacità di infiltrarsi nei Paesi in crisi e di piegare (o cercare di piegare) ai propri fini i problemi interni di questa o quella nazione. In altre parole: l’obiettivo di al-Qaeda è sempre globale, cioè la lotta ai "nuovi crociati" e la battaglia campale contro l’Occidente e la sua cultura (dagli stili di vita alla pratica della democrazia), ma gli strumenti di cui si serve hanno una base locale. Nel caso di Cicala e della moglie, per esempio, la Mauritania che è un Paese di faglia per eccellenza: molto povero (il 45% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno), attraversato dal confine impalpabile ma turbolento tra il mondo arabo e quello africano, uno dei pochissimi Paesi a forte componente araba ad aver riconosciuto Israele. Casi altrettanto esemplari, ognuno a modo suo, sono gli altri Paesi in cui al-Qaeda ha messo radici in tempi recenti: l’Algeria, dove i fondamentalisti islamici vinsero regolari elezioni, furono cacciati dall’esercito e scatenarono un’orrenda serie di massacri stroncati da un’altrettanto dura repressione; lo Yemen, unico regime repubblicano della penisola araba, fino a pochi anni fa ancora sfiorato dal demone della guerra civile; la Somalia, finita nelle mani dei guerriglieri islamici shabaab dopo decenni di dittatura e di corrosione dei rapporti tribali. Situazioni nella sostanza analoghe a quelle che al-Qaeda seppe a suo tempo sfruttare in Afghanistan o nell’area di confine tra Pakistan e Afghanistan, dove ancor oggi Osama si nasconde.Tutto questo ci porta a una conclusione: la battaglia contro il terrorismo islamico si vince a livello locale, intervenendo con precisione e intelligenza sulle situazioni particolari. Quanto Tolstoj diceva delle famiglie (quelle felici si somigliano tutte, quelle infelici lo sono ognuna a modo proprio) si applica anche ai Paesi in crisi: per togliere spazio e fiato ad al-Qaeda, pur partendo dalla consapevolezza globale della sfida, bisogna pensare locale e spianare una per una le pieghe di cui l’organizzazione approfitta per nascondersi e colpire. Se un errore è stato commesso, nel decennio scorso, è quello di rincorrere una soluzione globale, una ricetta universale, come se il fondamentalismo islamico fosse uno solo, come se gli shabaab somali fossero uguali ai generali algerini e ai montanari afghani. Per questo, alla fine, le parole più sagge e le azioni più efficaci sono arrivate dai generali, Petraeus in Iraq e McChrystal in Afghanistan. Perché loro vedevano ogni giorno, sul campo, quante sfumature e quante differenze ci fossero.
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