Si progettano Grand Hotel su rovine ancora piene di morti
venerdì 7 febbraio 2025

«Ero felice e cantavo lungo la strada del ritorno, ma poi ho raggiunto casa e ho trovato solo distruzione davanti ai miei occhi. Non sarei dovuto tornare», ha raccontato alla Bbc Imad Ali al-Zain, palestinese, 48 anni. Li si vedeva infatti, dieci giorni fa, dei sorrisi incerti sulle facce delle donne stipate su camioncini, ai margini di Gaza. C’era perfino chi batteva le mani e festeggiava, mentre la folla finora trattenuta dall’Idf, scattato il via libera, quasi di corsa sciamava verso Nord. Verso casa. Come un esodo biblico quell’onda di uomini e donne e bambini in braccio che stracarichi di borse, affannati, marciando verso casa.
A casa ci sono tornati. O almeno, nel punto Gps dove le loro case sorgevano, perché Gaza è un tale ammasso di macerie uguali, che è difficile dire. Vedi i profughi di che, giunti all’altezza di casa, si fermano, alzano gli occhi, restano annientati. La loro casa è morta: non ne restano che travi di cemento irte di fili elettrici, finestre buie come orbite vuote. Siedono affranti sulle rovine, nella polvere, i figli attorno. “Torniamo a casa”, avevano promesso ai bambini, e ora non sanno più che cosa dirgli.
Ci sono poi quelli, i più giovani e intraprendenti, che si aspettavano di trovare la casa danneggiata, ma, come dice un giovane palestinese, «pensavo che con due amici ce l’avrei fatta a sistemare due stanze, sono un ingegnere». E ci sono uomini e donne che disperatamente si inerpicano, i piedi nudi nelle ciabatte, sui cumuli di detriti, fino a una porta, dietro cui non c’è più niente. Cercano: non cose, o mobili o ricordi. Cercano figli e padri, che sono ancora lì sotto. Non sono solo pietre, le macerie di Gaza, ma cimiteri. Quando le ruspe, un giorno, rimuoveranno lo sfacelo, troveranno ossa ormai dell’identico colore del cemento; e chissà se si fermerà il fragore del motore, per raccogliere quei resti. (Dare una casa ai morti, è importante. Lungo il cammino a volte gruppi di profughi si fermano sul ciglio della strada: lì, nella fuga, hanno sepolto un figlio, un fratello. La terra è ancora smossa).
La vita, tuttavia, non si arrende. Ci sono uomini che tra le macerie fanno incetta di materassi, c’è chi sotto spezzoni di travi stende tende e allestisce giacigli, dove almeno si possa dormire insieme. Una bambina sui sei anni si è rintanata dentro i resti di un grosso elettrodomestico, forse una lavatrice, e da quella sua casetta osserva il formicaio umano che arriva, si dispera, ma poi si mette a cercare una lamiera, per farne un tetto. Rari muli e cavalli sfiniti spingono carretti stracarichi; anche le vecchie auto sotto il peso di dieci passegger si impiantano nella polvere. Allora si scende e si spinge, e ai ragazzini più piccoli sembra quasi un gioco, e ridono.
La marcia del ritorno a Gaza ha un che di apocalittico. Un popolo torna in una città rasa al suolo. Mi viene in mente un film di vent’anni fa, Genesis, con Denzel Washington, dove dopo una guerra totale i sopravvissuti fra le rovine si contendono disperati un bicchiere di carta, una forchetta di plastica, quelle minime cose che noi ogni giorno buttiamo. Gaza è un ground zero che atterrisce chi guarda, come un incubo che potrebbe accadere anche altrove, fra noi. Non ci sembra più, come pochi anni fa, del tutto impossibile.
Quando giorni fa ho sentito che Trump parlava di portare via i palestinesi e fare di Gaza una riviera di resort, ho creduto scherzasse. Una battuta, ho pensato, dopo due o tre whisky. Invece, lo ha ridetto: vuole mandare via i palestinesi - come se non fosse già drammaticamente accaduto. Vuole mandarli in un posto “così bello, che non vorranno tornare”.
Per l’imprenditore Trump evidentemente una città di macerie è solo un luogo da spianare. Quante ruspe occorrono, quanti camion, quanti manovali? Le fosse comuni ripulite con le benne. E poi, via, si ricostruisce. Resort, hotel, casinò. I palestinesi “felici” altrove, chissà dove.
Gaza, dall’apocalisse alla fantascienza. In questo Terzo millennio niente sembra più certo, intoccabile, sacro. Come fosse scattato qualcosa nella ruota della storia. Vite, morti, tombe, si spazza via tutto, il clima è ottimo, il mare – lo stesso, peraltro, in cui annegano a migliaia i migranti – bellissimo.
L’avvento di un disumanesimo, ecco ciò che pare di avvertire. Vecchio, ma ora digitale, dronizzato, omnisciente di Intelligenza artificiale. Un mondo gaiamente spaventevole, che progetta Grand hotel su rovine ancora piene di morti.

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