Che cos’ha veramente detto il Papa sul fine vita
domenica 26 novembre 2017

Che cosa ha detto di realmente nuovo il Papa nel messaggio di giovedì 16 novembre ai partecipanti al meeting della World Medical Association, organizzato con la Pontificia Accademia per la Vita, così da far pensare a un cambiamento in senso permissivo dell’insegnamento della Chiesa circa la volontà e le pratiche volte a mettere fine alla vita e da suscitare aperti o più obliqui tentativi di strumentalizzazione? Vediamolo.

Perché nel messaggio c’è effettivamente del nuovo, ma di metodo anziché di merito. Le questioni etiche del fine vita sono essenzialmente due: l’abbandono terapeutico, che porta alla interruzione eutanasica della vita, e l’accanimento terapeutico, che persegue la vita a ogni costo. La Chiesa finora le ha svolte e insegnate dal versante prevalente dell’eutanasia, con il 'no' detto a ogni soppressione volontaria e diretta della vita gravemente invalidata e sofferente. Papa Francesco le ha considerate dal versante dell’ostinazione terapeutica, evidenziando il 'no' della morale alla 'vita a ogni costo'. Versante che pone il problema del confine tra abbandono e ostinazione terapeutica. Entrambi da evitare come moralmente illeciti. Tale confine è tracciato dal «principio di proporzionalità delle cure» – richiamato dal Papa in continuità esplicita con Pio XII e la Congregazione per la Dottrina della fede – per il quale si è tenuti a ricorrere a una cura e a non interromperla quando si dà un rapporto di debita proporzione tra essa e «il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali». Motivo per cui «è moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici o sospenderli quando il loro impiego non corrisponde a tale principio», evitando di «accanirci inutilmente contro la morte».

Estrapolate queste parole dal principio, si è letta in esse la legittimazione della rinuncia eutanasica alle cure, la licenza a 'staccare la spina' comunque, fino al consenso al suicidio assistito. Precisa invece a chiare lettere il Papa: «Non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte». Rinunciare a cure sproporzionate o interromperle non costituisce azione soppressiva della vita: «Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire» e di viverla come l’ultimo atto della vita, perché «il morire è pur sempre un momento estremo del vivere». Il principio è chiaro ma l’applicazione s’è fatta oggi complessa e problematica. Il confine tra eutanasia e ostinazione terapeutica, tra abbandono e accanimento, tra mezzi proporzionati e mezzi sproporzionati a volte è distinto ed evidente; altre volte, e sempre più spesso oggi, è indistinto e osmotico.

Questo per l’incredibile complessità raggiunta dalla medicina, la problematicità clinica del paziente da essa accresciuta e i costi che le cure impongono. Il Papa volge l’attenzione a queste problematicità, complessità e a questi costi, da considerare nel deliberare il faciendum in una situazione singolare e concreta. Oggi – osserva – «è possibile protrarre la vita in condizioni che in passato non si potevano neanche immaginare. Gli interventi sul corpo umano possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute». Di fatto «la relazione terapeutica si fa sempre più frammentata e l’atto medico deve assumere molteplici mediazioni, richieste dal contesto tecnologico e organizzativo». Per di più «trattamenti progressivamente più sofisticati e costosi sono accessibili a fasce sempre più ristrette e privilegiate di persone e di popolazioni, ponendo serie domande sulla ineguaglianza terapeutica». Motivo per cui «nella concretezza delle congiunture drammatiche e nella pratica clinica i fattori che entrano in gioco sono spesso difficili da valutare». «Non è sufficiente – allora – applicare in modo meccanico una regola generale».

«Occorre un supplemento di saggezza», che apre a uno sguardo d’insieme sulla persona in situazione critica e con lei ponderare e decidere. «Occorre un attento discernimento, che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti». Discernimento che approda a un giudizio «in scienza e coscienza» di ciò che è da fare o da evitare. E questo giudizio è la norma da seguire per il bene del paziente e la bontà dell’atto medico. Torna in primo piano il personalismo etico di Francesco, che volge la morale a considerare il bene della persona nella sua entità oggettiva e a determinarlo in situazione soggettiva: «Attenti – come ci ha detto in Amoris laetitia – al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione».

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