mercoledì 6 maggio 2009
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A un mese dal terremoto che in pochi secondi ha sconvolto la vita di noi aquilani, tra la gente delle tendopoli, gli sfollati, i giovani in cerca di un domani tiene banco nonostante tutto la speranza. La speranza di una nuova città, uguale a prima, certo, ma se possibile più bella, con una nuova università, nuovi uffici, nuove scuole, nuove case... Ne siamo persuasi: L’Aquila – ce l’ha detto il Pontefice – anche se ferita potrà tornare a volare.È bello in questi giorni veder spuntare qua e là cartelli improvvisati di ristoranti, bar, attività di ogni tipo che avvisano della loro riapertura, di aver ricominciato a lavorare. Sì, di aver ricominciato. E può ricominciare solo chi ha una speranza nel cuore, chi nutre in qualche modo misterioso la fiducia invincibile che ce la potrà fare, che non è inutile riprovarci, rischiare di nuovo per il futuro.E insieme si vedono anche tanti segnali dell’Aquila "vecchia", quella cui eravamo abituati prima del 6 aprile. Le piccole meschinità di ogni giorno alle quali il sisma ha aggiunto le sue ferite e il senso di un’ingiustizia subìta. Il terremoto distrugge vite umane e case, ma l’uomo è quello di sempre, con tutta la sua straordinaria capacità di amare ma anche con egoismi difficili da estirpare. E allora amareggia, ma non stupisce che accanto ai tanti segni di rinascita ve ne siano anche altri che quella speranza fanno di tutto per spegnerla sul nascere. Ma se accanto a tanta voglia di ricominciare persiste il male di prima, riproposto in nuove forme, come si può sperare in una rinascita? Che cosa è indispensabile perché la speranza che sentiamo pulsare malgrado tutto non sia mal riposta?Il Papa qui all’Aquila si è chiesto insieme a noi «che cosa vuole dirci il Signore attraverso questo triste evento». Cosa vuol dire per noi questo terremoto? Cosa abbiamo imparato da questa dolorosa esperienza? La risposta che può fondare la speranza in un domani promettente per la nostra terra rimbalza dai salmi: «Signore, insegnaci a contare i nostri giorni, e giungeremo alla sapienza del cuore». Ecco cos’è necessario per non sperare invano: solo un cuore "sapiente" – non piegato su se stesso, sulle macerie che ci circondano – potrà donare a tutti uno sguardo spalancato sul futuro. Il cuore sapiente dei costruttori e degli ingegneri potrà far rinascere L’Aquila. E così anche il cuore sapiente dei politici che vorranno pensare al bene comune. Il cuore sapiente di tanti cittadini che vivranno da protagonisti la ricostruzione. Il cuore sapiente di chi saprà fare un passo indietro per il bene di tutti. Il cuore sapiente di noi pastori che, come Agostino, faremo tesoro di quello "spavento" salutare provocato dal Vangelo che impedisce di vivere per noi stessi e ci spinge a trasmettere la nostra comune speranza. Un cuore, dunque, che conservi la grande certezza che, nonostante tutti i fallimenti, le tragedie e persino i disastri materiali, la mia vita personale e tutta la storia sono custodite nel potere indistruttibile di un Amore, che chiede solo la nostra cooperazione. Impegnarsi nuovamente a vivere facendo ricorso a ciò che non muore, che il terremoto non ha abbattuto e che nessuna scossa può distruggere, è il modo più convincente per ricordare oggi i trecento morti di un mese fa. «L’amore – ha detto Papa Benedetto nella tendopoli di Onna – rimane anche al di là del guado di questa nostra precaria esistenza terrena, perché l’Amore vero è Dio. Chi ama vince in Dio la morte, e sa di non perdere coloro che ha amato».
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