giovedì 8 luglio 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
Stare in silenzio per un giornale è sempre un controsenso. E anche se è vero che alcuni silenzi sono inevitabili e altri possono dimostrarsi "parlanti", stavolta non so francamente immaginare che cosa riuscirà a dire l’evitabilissimo silenzio che a maggioranza i giornalisti italiani hanno deciso di autoimporsi in polemica con la "legge sulle intercettazioni" all’esame del Parlamento. Anche i giornalisti di Avvenire la pensano a maggioranza così e, ieri, ne abbiamo dato conto a pagina 2. Io ho profondo rispetto per la loro opinione e condivido molte delle preoccupazioni di quasi tutti coloro che nel nostro Paese si occupano di mass media. Ma ne ho qualcuna in più, e – per fortuna – non sono solo.Ho già scritto e riscritto che fatico a protestare per norme che non mi piacciono e che spero e voglio vengano giustamente ricalibrate, ma ritengo che la stretta di legge – ormai comunque incombente – sia anche il pesante frutto di un modo sbagliato e guardone di fare giornalismo. Un modo che ad Avvenire abbiamo cercato di contestare autoregolandoci (prendendo cioè sul serio l’articolato codice etico che i giornalisti italiani si sono dati negli anni) e tenendoci lontani (proprio perché fedeli all’ispirazione di questa testata) da ogni tipo di conflitto di interessi. A cominciare da quello che nasce dal cozzo di due doveri: onorare il diritto dei cittadini a essere liberamente e adeguatamente informati e garantire a quegli stessi cittadini uno sguardo sobrio e pulito sulle azioni di giustizia.Per questo, nell’era del "grande orecchio", pur senza rinunciare a dar conto di tutto ciò che era davvero importante, non ci siamo mai avvolti in "lenzuolate" di intercettazioni. E non ci siamo mai assolti a priori, dicendo a noi stessi e ai lettori che sono altri – in toga – a decidere nel momento in cui infilano carte in un qualche faldone se certo materiale d’indagine sensibile (e, magari, penalmente irrilevante) merita di entrare o no in articoli e titoli di giornale. I giornali li fanno i giornalisti non i magistrati dell’accusa e neanche gli avvocati difensori. Siamo noi a dare la caccia alle notizie e a noi tocca l’onere di decidere se certe notizie sono importanti e pubblicabili oppure sono carta straccia o, persino, polpette avvelenate. Avvenire, i nostri lettori lo sanno, non ha mai giocato con polpette e veleni. Ma di piatti all’arsenico ne sono stati cucinati non pochi in questi anni, con e senza intercettazioni di contorno, e qualcuno è stato usato anche contro fior di galantuomini.Ci sono regole che vengono prima della legge, anche nel nostro lavoro. E il nostro impegno è e resterà quello di fare un’informazione libera e responsabile, con sereno rispetto della verità dei fatti e dell’essenziale azione contro reati e crimini svolta da magistratura e forze dell’ordine, ma anche con acuta consapevolezza di quel principio di civiltà che è la «presunzione d’innocenza» e, prima ancora, della indiscutibile dignità delle persone che sono protagoniste di un qualunque evento di cronaca. Mai silenzi servili, mai processi mediatici a chicchessia, mai aggressioni casuali o – peggio – premeditate.Non sono affatto convinto che il nostro silenzio di domani riuscirà a comunicare tutto questo. E allora lo dico oggi. Ma dico anche un’altra cosa che non riesce neppure ad affiorare nei fiumi di retorica fatti correre per difendere libertà di stampa e molteplicità di voci e accenti. L’insidia più grave, a mio giudizio, contro la libera stampa è rappresentata oggi dall’agonia procurata di un gran numero di testate giornalistiche, soprattutto (ma non solo) locali, soprattutto (ma non solo) d’ispirazione cattolica. Tre mesi fa, in un incredibile disinteresse, sono state colpite ferocemente e ingiustificatamente dalla decisione di cancellare le tariffe postali speciali. E in queste ore le Poste rigirano il coltello nella piaga. Se ci può essere un grido nel silenzio di oggi, il mio è prima di tutto per questo.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: