L'innocenza più profonda che salva dalle tempeste perfette
domenica 3 marzo 2024

«Giona scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis. Pagato il prezzo del trasporto, s'imbarcò con loro per Tarsis, lontano dal Signore» ( Giona 1,3). Giona sale sulla prima nave, e scappa. Paga “il prezzo“ del trasporto, e poi si imbarca “con loro”. Nella Bibbia quando sono in gioco la vita e la morte, spunta spesso il “prezzo di mercato”, e dove non ce lo aspetteremmo. Come per Abramo nell’acquisto della terra per seppellire Sara (Gn 23), o in Geremia per il campo di Anatot (Ger 32), due episodi chiave dove il riferimento al prezzo rafforza la solennità estrema di quei gesti. Quando nella Scrittura troviamo un prezzo, dobbiamo interpretarlo anche come un segnale, un simbolo di qualcosa d’altro. Dicendoci che Giona pagò il prezzo del biglietto per imbarcarsi, la Bibbia sta allora accrescendo la solennità spirituale di questo momento decisivo della storia di Giona. Il Dio biblico ha imparato a “parlare economia” perché vuole parlarci di vita e di morte, vuole farsi capire da noi - anche in questi dettagli si nasconde la bella laicità vera della Bibbia.

C'è poi quel «s’imbarcò con loro». In quella fuga da Dio Giona trova, forse cerca, una compagnia umana, come se la presenza di un gruppo di uomini potesse sostituire l’assenza del Signore; come se il rumore delle voci di quei compagni di (s)ventura fosse capace di fargli dimenticare il suono di un’altra voce che non aveva voluto ascoltare. Quando si fugge da sé stessi, si parte da soli ma si arriva in compagnie, spesso improbabili, improvvisate e precarie preferite comunque alla solitudine che ci rimanda un’eco che ci terrorizza: ci riempiamo di molte voci per scordarci quella voce sola. Le compagnie sono, qualche volta, anche questo.

«Ma il Signore scatenò sul mare un forte vento e vi fu in mare una tempesta così grande che la nave stava per sfasciarsi. I marinai, impauriti, invocarono ciascuno il proprio dio e gettarono in mare quanto avevano sulla nave per alleggerirla. Intanto Giona, sceso nel luogo più in basso della nave, si era coricato e dormiva profondamente» (1,4-5). Ma... dopo l “invece” di Giona (1,3), ecco un’altra congiunzione avversativa narrativa e teologica. I marinai gettano in mare i loro pesi, ma non sanno ancora che il vero peso sulla nave è Giona. Pregano i loro molti dei, sono dunque pagani, «rappresentanti delle settanta nazioni della terra» (L. Ginzberg, Le leggende degli ebrei, VI, p. 194). La nave sta per affondare, ma Giona, continuando la sua discesa e la sua fuga, era finito nella parte più bassa. Lì, caduto in un sonno profondissimo, non è svegliato dalla bufera.

Non è il sonno buono di Adamo (2,2), né quello delle visioni e delle profezie di Daniele. È invece il sonno diverso del depresso, qualcosa di simile al sonno di Elia sotto la ginestra (1 Re 19,4), del sonno di chi si ubriaca per non pensare più alla vita, sperando, forse, di non svegliarsi più. Da quel sonno non lo desta un angelo ma il grido di un uomo: «Gli si avvicinò il capitano e gli disse: “Che cosa fai così addormentato? Àlzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo”» (1,6). Il capitano usa lo stesso linguaggio che aveva usato Dio nella chiamata di Giona - «alzati, proclama» (1,1) - in ebraico: qûm, qâra’. Giona non aveva risposto all’invito di YHWH, ma ora sembra rispondere all’invito di un uomo quante persone ricominciano a dialogare con un Dio che non capiscono più se sono raggiunte in una stiva della terra dal grido dei poveri, e dentro quel grido di dolore tutto umano iniziano un nuovo apprendistato della voce di Dio!

«I marinai dissero fra di loro: «Venite, tiriamo a sorte per sapere chi ci abbia causato questa sciagura». Tirarono a sorte e la sorte cadde su Giona. Gli domandarono: “Spiegaci dunque chi sia la causa di questa sciagura. Qual è il tuo mestiere? Da dove vieni? Qual è il tuo paese? A quale popolo appartieni?” » (1,7-8). Tirare la sorte era nel mondo antico, Bibbia inclusa (ad es. Gs 7,17; At 1,26), un mezzo per capire, in alcuni contesti, la volontà divina.

Ma eccoci nel centro di questo primo capitolo: tra i marinai si insinua la logica del “capro espiatorio”. In quella situazione di pericolo estremo e di imminenza della morte prende piede la domanda tanto semplice quanto sbagliata: di chi è la colpa? La risorsa (illusoria) di ultima istanza diventa l’individuazione di un colpevole cui addossare la colpa, e poi buttarlo fuori dalla comunità per ristabilire la pace con la divinità e placarla. La vittima sacrificale deve essere colpevole, e la comunità deve convincersi della sua colpevolezza affinché la sua espulsione sia meritata - quanti riti di capro espiatori dentro ogni meritocrazia!

Per René Girard il capro espiatorio deve rispondere ad alcune caratteristiche: a) avere segni evidenti di diversità fisica o morale (un difetto fisico o psichico, evidente diversità culturale, religiosa o etnica); b) essere un elemento non essenziale per la sopravvivenza del gruppo, una persona “estrema” (un re o un marginale); c) il capro deve essere un membro del gruppo senza farne parte, senza essere un elemento essenziale; d) infine, il capro espiatorio una volta sacrificato assume, paradossalmente, qualità divine, poiché gli si attribuisce la salvezza della comunità. In questo modo la scelta della vittima cade su qualcuno la cui morte non sarà vendicata e così la violenza non diventerà “mimetica”.

Giona possiede tutte queste caratteristiche: è un diverso («Sono Ebreo e venero il Signore, Dio del cielo, che ha fatto il mare e la terra» (1,9)), è esterno al gruppo dei marinai, nessuno quindi lo vendicherà, e alla fine placherà le acque. Manca solo la sua evidente colpevolezza: questa la fornirà Giona stesso. Il (lontano) riferimento biblico al meccanismo del capro espiatorio si trova nel Levitico (16,9-10), in un brano dove compare una misteriosa arcaica divinità (“Azezel”) a cui si offre il capro espiatorio: «Il capro che è toccato in sorte ad Azazèl sarà posto vivo davanti al Signore, perché si compia il rito espiatorio su di esso e sia mandato poi ad Azazèl nel deserto» (Lv 16,10). Importante notare che anche in questo caso il capro da inviare nel deserto è scelto «gettando le sorti » (16,8) - come Giona.

Questi versetti sono costruiti attorno alla tensione innocenza-colpa: «Signore, fa' che noi non periamo a causa della vita di quest’uomo e non imputarci il sangue innocente » (1,14). Per i marinai che non hanno tutte le informazioni, Giona è un capro espiatorio imperfetto a causa della sua dubbia colpevolezza - e per questo prima tentano di tornare a riva: «Quegli uomini cercavano a forza di remi di raggiungere la spiaggia, ma non ci riuscivano» (1,13). Ma noi lettori sappiamo, invece, che Giona non è innocente, e quindi nel libro il meccanismo del capro espiatorio funziona perfettamente.

Ma ecco un’altra svolta: «Essi gli dissero: “Che cosa dobbiamo fare di te perché si calmi il mare, che è contro di noi?”. Infatti il mare infuriava sempre più. Egli disse loro: “Prendetemi e gettatemi in mare e si calmerà il mare che ora è contro di voi, perché io so che questa grande tempesta vi ha colto per causa mia”» (1,11-12). Giona chiede di essere gettato in mare. In questa stupenda scena troviamo echi importanti del Servo di YHWH del secondo Isaia (cap. 55), dove un innocente diventa vittima vicaria per il popolo. Ma in molti (e tra questi Gerolamo, Commento a Giona, p. 58) vi hanno visto una prefigurazione del Cristo, un altro capro espiatorio innocente - e come non farlo alla luce delle parole dei marinai rivolti a Dio: «Non imputarci il sangue innocente» (1,14), che ritroveremo secoli dopo nel racconto della Passione (Mt 27,25)? Interessante poi notare che Girard ci offre anche una lettura originale del misterioso “segno di Giona” che troviamo nei vangeli: «Cos’è il segno di Giona? Il riferimento alla balena di Matteo non è molto illuminante, e bisogna preferirgli il silenzio di Luca... Il “segno di Giona” designa, ancora una volta, la vittima collettiva» ( Il capro espiatorio, p. 186).

In questi pochi e densi versi si intrecciano più registri narrativi e teologici, tutti di grande rilevanza da molte prospettive. Al centro c’è l’esperienza di Giona. Sente di essere lui la causa di quella tempesta e di quella morte prossima, perché l’associa alla sua disubbidienza a Dio - “ Io so...” Una esperienza, quella di Giona, che può ripetersi tutte le volte che una persona crede che esista un legame tra la sua disobbedienza spirituale-morale e un problema che accade accanto a sé (in una famiglia, in una impresa, in una comunità...). Ciò che conta è la credenza soggettiva, non la verità oggettiva di quella credenza. Una donna, un uomo ha commesso un errore, magari un peccato. Si ritrova per questo in un posto sbagliato. Lì accade una disgrazia, un dolore collettivo. Inizia a credere che quel dolore non ci sarebbe stato senza quel suo “no” di ieri, e trova una evidente relazione di causa-effetto.

Finisce così in una grande sofferenza psicologico- spirituale, tra le più grandi, e nella ricerca disperata di una soluzione può un giorno iniziare a pensare ossessivamente che la sola soluzione vera è la sua uscita di scena. E se mentre quel nuovo Giona vive questa “prova” personale, parallelamente nei suoi confronti si innesca anche un meccanismo collettivo di capro espiatorio, questa “tenaglia” produce conseguenze molto gravi se non interviene qualcuno o qualcosa a spezzare questo circuito di morte. Perché la logica tremenda del capro espiatorio diventa perfetta quando riesce un duplice esercizio maligno: (1) la comunità si convince della colpa della vittima e, elemento essenziale, (2) la vittima si convince della propria colpevolezza e quindi, diversamente dagli animali, è lei stessa che chiede di essere gettata nel mare. Come Giona: «Presero Giona e lo gettarono in mare e il mare placò la sua furia» (1,15). La prima titubanza dei marinai che cercano di evitare la morte di Giona può essere anche letta come un “no” della Bibbia alla legittimazione di simili tremendi meccanismi sociali di morte, che vediamo ripetersi tutti i giorni.

Ci si salva da queste trappole mortali se non perdiamo, nella stiva del nostro cuore, la fede in una innocenza più profonda e vera delle nostre colpe o se qualcuno custodisce per noi questa fede che abbiamo perso.

l.bruni@lumsa.it

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