sabato 13 luglio 2013
COMMENTA E CONDIVIDI
Alzi la mano chi non conosce un ventenne che, al rientro da un viaggio in una missione nel Sud del mondo, non abbia provato a contagiarlo raccontando, con un mix di entusiasmo e stupore, quanto visto e sentito, nel lebbrosario sperduto dell’Africa o tra i campesinos delle Ande. Partire è sempre un esodo: comporta uscire dalle proprie abitudini ed esporsi all’imprevisto. Ma partire per raggiungere qualcuno in missione e, insieme, vivere – anche se per breve tempo – in una terra "altra" presuppone qualcosa che va ben oltre il fascino dell’esotico. Un’esperienza del genere diventa, per chi la vive, un modo per sperimentare (e sperimentarsi in) quel che più sta a cuore. È, in altre parole, un momento di verità circa la propria vita: spesso, anzi, si rivela una sorta di "iniziazione" all’età adulta perché per la prima volta si viene proiettati in contesti che costringono a fare i conti con le proprie convinzioni più profonde, senza l’ausilio del gruppo degli amici, il supporto della famiglia, la comoda impalcatura delle proprie certezze.Certo, oggi il mondo è un piccolo villaggio. E se qualche decennio fa prendere l’aereo per l’Africa era un’avventura, ora invece la facilità delle comunicazioni, unita alla maggior familiarità dei giovani con le lingue straniere, ha spogliato i viaggi internazionali dell’aura "epica".Eppure, qualche settimana lontano dall’Europa – nelle savane assolate d’Africa o nelle convulse periferie delle metropoli d’Asia – non solo regala al giovane emozioni mai provate, ma soprattutto fa balenare nella testa e nel cuore pensieri con i quali forse mai ci si era misurati.Ho avuto la fortuna di collaborare alla preparazione del viaggio in missione per giovani e ragazze che ogni anno il Pime propone e, soprattutto, di condividere con molti di loro i tesori del "ritorno". Ebbene, posso garantire che il viaggio in missione è molto più di una vacanza indimenticabile. Quanto preparato e vissuto con intensità, infatti, diventa qualcosa che segna la vita, ti cambia lo sguardo e ti resta dentro. Un tatuaggio sul cuore, insomma. In primo luogo perché spalanca gli orizzonti. E così, il giovane che, non di rado – proprio come ogni tifoso per la nazionale di calcio – pensa di avere in mente la ricetta risolutiva per lo sviluppo dei Paesi poveri o la mossa vincente per risolvere il problema della fame del mondo, si accorge, talora in modo drammatico, della terribile complessità della vita, delle innumerevoli variabili che non aveva previsto, e, in definitiva, dell’ostinata resistenza del reale a rientrare docilmente negli schemi.Stando a fianco degli ultimi per giorni e giorni, poi, prende coscienza di quanto sia grande la distanza tra il povero in carne e ossa e la sua rappresentazione idealizzata. «I poveri sono la carne di Cristo», ci ha ricordato il Papa. Ma sovente il povero puzza, non sempre ringrazia e, talvolta, prova a fare il furbo. I missionari lo sanno e, sebbene anch’essi facciano fatica, provano ad amarli per quel che sono. Alla loro scuola i giovani possono imparare un amore al povero più autentico, perché purificato dalla retorica.Infine. L’esperienza della missione fa toccare con mano la bellezza di una vita spesa interamente per gli altri, in nome del Vangelo. Ho in mente uno studente milanese di Architettura, avviato a un promettente futuro professionale; sedotto dalla testimonianza di un anziano sacerdote in India, ha deciso, a sua volta, di farsi prete e fra poco partirà – ad vitam – per la missione. Non è un incidente di percorso. È che quando tocchi con mano la possibilità di una vita "altra" (non più facile o comoda, ma più piena e vera), non te la lasci scappare.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: