martedì 26 gennaio 2010
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Caro direttore,solitudine, unica beatitudine! Dalla Bibbia sembrerebbe che Adamo non si sentisse a proprio agio da solo e Dio creò Eva. In questo anno dedicato al sacerdozio, penso spesso alla solitudine di tanti nostri preti, specialmente quelli che esercitano il ministero in ambienti difficili, se non ostili. C’è un vero e proprio «eroismo di permanenza», che però è spesso usurante. Sarebbe utile che, soprattutto chi frequenta la chiesa, provasse qualche volta a immedesimarsi nei propri sacerdoti. Anche chi cura le anime non è fatto di puro spirito, ma è un uomo, con personalità, sentimenti, passioni, debolezze: quanto lo consideriamo? Perché non gli dedichiamo qualche minuto? Perché non lo andiamo a trovare, non lo facciamo partecipe della convivialità della nostra famiglia, non gli dedichiamo attenzione? Questa vicinanza può contribuire anche a sostenere e indirizzare meglio la sua missione apostolica, orientandolo nel comprendere ed affrontare le difficoltà che viviamo tutti i giorni nella famiglia, nel lavoro, nella società. Si tratta di fargli capire che gli siamo vicini con la nostra comprensione, con l’apprezzamento e anche con la preghiera, specie nei momenti più oscuri, quando anche a lui quel Signore per il quale si spende ogni giorno rischia di apparire lontano e silenzioso.

Sandro Riolevi

«Beata solitudo, sola beatitudo» («beata solitudine, sola beatitudine») è una celebre espressione di san Bernardo di Chiaravalle, il grande propulsore, nel XII secolo, della riforma cistercense. Era evidentemente rivolta ai suoi monaci, che avevano scelto di insediarsi in luoghi isolati, lontani dalle città. Niente distrazioni, architetture essenziali, lavoro e tanta preghiera per dare concretezza anche tangibile all’obiettivo di non anteporre alcunché all’amore di Cristo. Ma la vocazione monastica è diversa rispetto a quella cui rispondono i sacerdoti delle nostre parrocchie, definiti clero «secolare» proprio perché vivono immersi nella realtà mondana, tra la gente. È indubbio che la secolarizzazione abbia in non pochi casi inaridito la rete di relazioni e il clima di consenso e di stima nei confronti dei sacerdoti. La loro scelta di vita appare a molti «eccezionale» e cresce quindi il distacco apparente dalla vita percepita come «comune». Così non è, certo, per chi vive a loro contatto, frequenta la liturgia e partecipa agli organismi, alle attività e alle iniziative della parrocchia. Anche tra questi, tuttavia, come lei giustamente rileva caro Riolevi, può esserci poca attenzione per l’uomo che esercita il ministero. Ma non c’è prete «senza» l’uomo che ha scelto di donare la propria vita al Signore. La «riuscita» del prete presuppone quella dell’uomo. E per lui, come per ciascuno di noi, le relazioni con gli altri hanno un peso determinante. Sostenerlo, essergli vicini con amicizia e disponibilità è la prima forma di carità che possiamo esercitare nei suoi confronti. Eventuali ombre e ritrosie dovrebbero scomparire al solo ricordo della grandezza dei doni di cui è tramite: Parola e sacramenti.
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