venerdì 8 novembre 2019
Aprire le iscrizioni finirebbe col sommergere le università. Il problema sono le borse di studio per la specializzazione: bastano per 6.500 aspiranti camici bianchi
Foto Ansa

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Gentile direttore,
mi ha davvero colpito la pagina di Primo Piano di “Avvenire” del 27 ottobre 2019: «Viaggio tra i malati lasciati soli. È l’Italia che non si cura più» che torna a sottolineare anche «l’assenza dei medici di base»... e non riesco a dimenticare il trafiletto che richiama «I numeri di un allarme cronico (non solo in corsia)». Non è la prima volta che anche il nostro giornale ne parla. Ciascuno di noi, poi, ha il suo episodio di mala sanità da raccontare: due anni di attesa per operare la cataratta; visite specialistiche immediate solo se a pagamento; sovraffollamenti del pronto soccorso; ecc. In parole povere: un’organizzazione che fa acqua! Ma di fronte alla carenza di medici e al concomitante “numero chiuso” per accedere agli studi di Medicina, con chi ce la prendiamo? Ecco vorrei che “Avvenire” ci facesse cortesemente capire con chi ce la possiamo prendere! Chi è che stabilisce e governa questo famoso “numero chiuso”? E perché esso viene mantenuto se la domanda di medici è così pressante? Spero che, con la consueta franchezza il nostro giornale ci possa svelare quale personaggio o ente o istituzione ha questa grave responsabilità e perché gli allarmi che vengono lanciati non sono minimamente raccolti! Grazie e buon lavoro.

Claudio Romano Udine

È vero, gentile signor Romano, “Avvenire” ormai da due anni si occupa da vicino del tema della carenza di medici in Italia, proponendo fatti e dati e rilanciando appelli alle istituzioni che si sono fatti via via più accorati circa la necessità di un cambio di rotta immediato per evitare la deflagrazione del nostro prezioso Sistema sanitario nazionale. Purtroppo, a parte diversi annunci, quasi nulla è stato ancora fatto per arginare una piaga che si allarga, e non solo in corsia – dove mancano ormai specialisti quasi in ogni campo – ma soprattutto sui territori, nelle città e nei paesi, dove il massiccio pensionamento dei medici di base e dei pediatri sta creando letteralmente il caos. Lei si chiede e ci chiede di chi sia la colpa. Si deve senz’altro partire dalla mancanza di coraggio nelle scelte di politica sanitaria che si sono fatte negli ultimi anni (indipendentemente dal colore dei Governi che si sono avvicendati), con fondi via via ridotti sia per le risorse umane sia per la ricerca. Il risultato sotto gli occhi di tutti è stato un “impoverimento” delle professioni sanitarie: da una parte i concorsi e i bandi per nuove posizioni quasi deserti, dall’altra un numero sempre crescente di giovani camici bianchi volati all’estero, dove la loro preparazione viene maggiormente riconosciuta e le carriere incoraggiate. In questo scenario l’abolizione del numero chiuso a Medicina, a cui anche lei fa riferimento, è stato spesso tirato in ballo come una delle possibili soluzioni: se mancano medici – questo il ragionamento – formiamone il più possibile di nuovi. In realtà i ben 10mila laureati in medicina sfornati dalle università ogni anno basterebbero ampiamente (e in appena un lustro) a recuperare l’emorragia di pensionati prevista entro il 2024: aprire i rubinetti delle iscrizioni finirebbe anzi col sommergere le università, impreparate a gestire la mole di così tante nuove leve, a scapito della qualità dei percorsi formativi. Il nodo resta piuttosto il numero di borse di studio per la specializzazione, che bastano a coprire il percorso di appena 6.500 aspiranti camici bianchi (da quest’anno, anche se per ora la misura resta solo sulla carta, dovrebbero diventare 8mila). Eccolo qui, il vero “imbuto” che sta strozzando il Ssn, tanto che proprio sull’impiego di specializzandi o addirittura neolaureati stanno ora insistendo con proposte pionieristiche alcune Regioni come Veneto, Toscana, Lombardia. L’idea è quella di farli lavorare in corsia, costruendo sul campo le proprie competenze, con corsi di formazione e contratti ad hoc. È una via, per certi versi anche rischiosa. Il tempo ci dirà se è la scelta giusta. Quello che continua a mancare è una strategia comune, un grande Piano nazionale che faccia davvero i conti con l’emergenza in atto e garantisca risposte uniformi ed efficaci da Nord a Sud sulla base di una programmazione anno per anno dell’accesso alla professione. L’attuale ministro della Salute, Roberto Speranza, ha dichiarato proprio su queste pagine di considerare il tema una priorità. Attendiamo fiduciosi, e con crescente senso d’urgenza, risposte concrete.

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