Perché riscrivere il testo è la via per una legge seria
mercoledì 12 maggio 2021

Come era da attendersi, una buona intenzione – contrastare e punire condotte abbiette su gruppi sociali più esposti di altri alla discriminazione e alla violenza, nel caso di specie per motivi attinenti ai vissuti personali della sfera sessuale e della disabilità – si è arenata ancora una volta sul terreno dello scontro politico e ideologico. Nessuno (o quasi) contesta la ragionevolezza di ciò che il ddl Zan vuole evitare (discriminazioni e atti di violenza) e promuovere (una cultura dell’accoglienza dell’'altro'). E quindi nessuno che condivida queste intenzioni può sensatamente opporsi alle sue finalità. Il punto verte sui mezzi per raggiungere i fini che ci si propone. Qui cominciano i problemi.

Le obiezioni sono così tipizzabili: è una legge pleonastica; è una legge che mette a rischio la libera espressione delle idee nel dibattito pubblico; le fattispecie penali individuate non hanno la necessaria tassatività per evitare l’alea di interpretazioni lesive in dibattimento di tutti gli attori coinvolti, creando, per dirlo con un’analogia, problemi simili al contestatissimo reato di abuso d’ufficio. Ora così come sono certe le buone ragioni di fondo della legge Zan, diversi aspetti di queste obiezioni sono sensati. Quindi che fare? Sulla prima obiezione, la tesi cioè che già con le attuali norme del Codice penale si possano raggiungere le finalità del ddl, direi, che anche se ha una sua plausibilità, tuttavia è prevalente l’urgenza sociale di normare comportamenti odiosi a danno di gruppi sociali esposti che destano sempre più un giustificato allarme sociale. Le altre due obiezioni hanno maggiore solidità, e i loro argomenti sono sostenuti dall’ingresso nell’impianto della legge fondamentalmente di un concetto, l’«identità di genere», di difficile definizione e pertanto difficilmente maneggiabile in diritto penale. Soprattutto se, come nel ddl Zan, nelle definizioni previe all’articolato di legge, lo si importa come «l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione».

Dove è del tutto ovvio che siamo in presenza di una definizione soggettiva, 'fluida' di questa identità. La riduzione, cioè, dell’identità di genere a processo autodichiarativo del proprio 'sentire' che sarebbe proprio di ogni genere, anche quello binario prevalente, maschile e femminile, e quindi non ne individua nessuno. D’altro canto, è tesi lgbt che, anche nel rapporto con l’anatomia sessuale, il genere sia uno 'spettro', che cioè non esistono solo un genere femminile e un genere maschile, ma uno spettro continuo di generi tra questi due 'estremi'. Ma una tesi del genere, tutt’altro che unanimemente condivisa nel dibattito scientifico e di pensiero, come può essere 'giuridificata' in diritto penale?

Si vuole forse promuovere la tesi, del tutto discutibile, che di fatto non esiste il genere? Che cioè il genere, e l’identità biopsico- sociale che vi si 'sustruisce', non ha basi o vincoli di 'natura', ma il 'dispositivo naturale' per così dire – il sesso, gli ormoni – è a disposizione dell’autointerpretazione del libitum individuale? Non è questa una surrettizia normativizzazione della negazione ideologica della 'naturalità' del genere, anche di quella omosessuale?

E ammesso che tutto questo costrutto ideologico sia argomentabile sensatamente in re – cosa che ovviamente chi scrive non crede affatto –, perché poi dello spettro di genere dovrebbero essere protetti alcuni 'spicchi', per altro fluidi, e non altri? Perché più numerosi in società? Ma è argomento che tiene, se il genere forse più numeroso quello 'normo-femminile', diciamo così, patisce ogni giorno discriminazioni e violenze? Come si fa a non vedere che la giusta esigenza dell’emancipazione sociale dalla discriminazione e dalla violenza della propria identità di genere rischia di mettersi al servizio di una richiesta ai 'generi' di omologazione 'unigenerica' sul terreno prestazionale, per altro modellato tayloristicamente sul maschile, funzionale a un sistema di produzione che ha bisogno di lavoro sempre più mobile e sganciato da ogni attribuzione di ruolo tradizionale che ne possa appesantire il costo alla catena di produzione sociale? Dietro il lancio unisex dei jeans Levi’s di qualche decennio fa e la pubblicità promozionale della fluidità di genere di qualche grande firma della moda, il messaggio in analogia di certi influencer sui palchi dello spettacolo, c’è un nodo generale della nostra società, che ti vende la 'libertà' di sceglierti la tua identità nella sfera sessuale in cambio di ampie cessioni della tua più generale identità esistenziale, di richiesta di omologazione della tua identità su tutto il restante spettro sociale, economico e politico del suo esercizio esistenziale, cioè della tua differenza di persona, anche come attribuzione di genere. Ma tutto questo viluppo di questioni (e anche la questione non meno scivolosa della 'fobia' dell’alterità, che è magari un’alterità che temo in me e per cui non sono pronto, come di per sé atteggiamento discriminatorio da sanzionare penalmente, piuttosto che 'lavorarci su' sul piano culturale ed educativo per costruire una società più accogliente dell’altro, dell’altro che è in me e che mi fa me) può essere risolto nelle definizioni di un articolo di legge? Onestamente penso di no.

E allora una proposta di pulizia concettuale e normativa del ddl Zan: 1) si titoli la legge «Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sulla disabilità e sull’omofobia, lesbofobia, bifobia, transfobia»; 2) si elimini l’articolo 1 delle definizioni con le difficoltà che ne vengono a cascata; 3). si iteri differenziandola la previsione penale alla fine dell’art. 604-bis del codice penale in questo modo: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è altresì punito: a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi fondati sulla disabilità e sull’omofobia, lesbofobia, bifobia, transfobia; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi fondati sulla disabilità e sull’omofobia, lesbofobia, bifobia, transfobia»; di modo che possa anche essere espunta dalla legge l’excusatio non petita che sulla materia dell’identità di genere e degli stili di vita in generale è fatta salva la libera espressione e propaganda, nel rispetto dell’integrità morale e fisica di ogni persona, delle proprie idee. Fatto questo, con qualche altro intervento di messa in coerenza del testo, il ddl Zan penso si possa approvare assicurandone normativamente le giuste intenzioni di fondo.

Filosofo, Università Federico II Napoli e già parlamentare della Repubblica eletto nel centrosinistra ©

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