venerdì 11 gennaio 2013
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Si fa presto a dire metafora, specie quando c’è una nave che affonda. Il pensiero corre al Titanic, specie se siamo nel 2012, anno del centenario del naufragio. Dato che il fattaccio avviene in Italia, poi, si può sempre ricordare il Fellini di E la nave va, un film che – neanche a farlo apposta – arrivava nelle sale trent’anni fa giusti giusti. Era il 1983 e già allora l’Italia assomigliava a un piroscafo preso di mira dalle corazzate delle superpotenze europee.
Ecco, basta così. Perché in quello che è avvenuto dodici mesi fa all’isola del Giglio, nella notte terribile del 13 gennaio, non c’è nulla di suggestivo, a dispetto del gioco di interpretazioni incrociate subito scatenatosi all’indomani dell’incidente. Chiara fin dal primo momento, la dinamica dei fatti resta ancora senza spiegazione: la Costa Concordia si avvicina alla riva, la cerimonia dell’«inchino», l’urto contro gli scogli, lo squarcio nello scafo, l’evacuazione troppo lenta, l’inadempienza di alcuni, l’eroismo di altri. E le trentadue vittime, che a un anno di distanza le famiglie non hanno smesso di piangere, mentre l’iter processuale ancora deve delinearsi nella sua interezza e il relitto della nave da crociera resta lì, in attesa di essere rimosso. A trarne vantaggio sono gli immancabili turisti della catastrofe, che continuano a mettersi in posa su quello sfondo che pare uscito da un telegiornale. Anche su di loro incombe lo spettro della metafora, evocata dai versi con cui Lucrezio descrive la consolazione illusoria che proviene dall’essere spettatori di una disgrazia lontana.
Abbiamo avuto di tutto, in questi dodici mesi, tranne che poche risposte certe a poche domande elementari: perché? com’è stato possibile? di chi è la colpa? La solita approssimazione italiana, si dirà, la leggerezza fatta sistema, l’irresponsabilità dilagante. È la chiave di lettura che della sciagura del Giglio hanno offerto, con prontezza un po’ sospetta, molti commentatori stranieri, evidentemente ingolositi dall’analogia tra il va-e-vieni delle maree e l’andamento non proprio rassicurante dello spread nostrano.
Per il resto, i media italiani hanno collaborato con generosità, scodellando retroscena che sono andati dall’infame al piccante, affrettandosi a erigere monumenti e patiboli, fino all’inevitabile resa al pensiero unico dell’ironia, che dal web spopola indisturbata nella vita reale. Sì, i tormentoni via Twitter sulle frasi famose, le parodie più o meno azzeccate, la gran voglia di non farsi mancare nulla. Senza dimenticare che, dal momento dell’incidente in poi, siamo tutti diventati capitani di lungo corso, marinai provetti, gente che gli dai una nave e come minimo ti scopre l’America. Lo vedete, no?, quanto è forte la tentazione. Cambiare di passo, fare il salto a quello che, con buona approssimazione, potremmo definire il «secondo livello»: non il fatto, ma il suo significato presunto. Non la cronaca, ma la metafora alla quale la cronaca deve per forza alludere.
Cortocircuito curioso, a ben pensarci, perché la nostra è un’epoca altrimenti allergica alle interpretazioni dotate di senso. Abbiamo perso il gusto dell’allegoria, e cioè della costruzione concettuale in cui tutto quadra, poiché tutto è stato immaginato in vista del disegno finale. Questo, però, la mentalità corrente non lo accetta, ribellandosi d’istinto al rischio di un determinismo soffocante. Una sola verità? Figurarsi. Il bazar delle metafore offre un’infinita gamma di scelta, sarebbe assurdo rinunciare all’occasione. Discutiamone finché vogliamo, ma nessuna argomentazione potrà dispensarci mai dall’umana dignità del lutto, il rito silenzioso che ci permette di contraddire la scandalosa assenza di significato con cui la morte continua a minacciarci.
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