martedì 7 agosto 2012
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​Le reazioni scatenate dall’intervista domenicale di Mario Monti al settimanale Der Spiegel, soprattutto in Germania ma anche a Bruxelles e a Roma, sembrano oscillare tra la categoria logica del paradosso e quella psicologica della rimozione. Finendo poi per sfociare nel più tradizionale filone della furbizia politica. Il premier italiano, sottoposto a un intenso bombardamento di quesiti dal periodico tedesco, ha parlato in effetti con una dose di franchezza poco in voga tra le cancellerie, ma che supponiamo gli sia propria anche nei contatti ravvicinati con i colleghi capi di stato e di governo, sia in sede comunitaria che bilaterale. E da questo punto di vista, la precisazione diffusa ieri sera da palazzo Chigi è apparsa tanto opportuna sul piano diplomatico e centrata sul piano istituzionale, quanto coerente e convincente nei contenuti.La frase incriminata del colloquio è quella in cui il nostro presidente del Consiglio suggerisce agli esecutivi comunitari, nel comune sforzo di costruzione dell’edificio europeo, di «mantenere un proprio spazio di manovra», senza farsi «vincolare del tutto dalle decisioni dei loro Parlamenti». Ne sono seguite spropositate accuse - teutoniche, ma anche italiche - di scarsa sensibilità democratica, piccate lezioncine di portavoce berlinesi sulla necessità di «legittimazione» parlamentare a fronte di scelte cruciali per il futuro degli Stati, circospette dichiarazioni degli ambienti della Commissione Ue, accompagnate da non meglio identificabili espressioni di «sorpresa».Il primo dato paradossale è che Mario Monti, ben prima di darsi alla pratica - invero sempre rischiosa - dei consigli, aveva accusato clamorosamente se stesso di disobbedienza alle indicazioni di Camera e Senato nostrani: "Se avessi dato loro retta fino in fondo - ha detto in sostanza - non avrei dovuto firmare il patto di fine giugno, perché mi era stato richiesto di esigere gli eurobond a tutti i costi, di battere i pugni sul tavolo, ma non li ho ottenuti". Questa parte dell’intervista è stata, per l’appunto, accuratamente rimossa. Un altro dato paradossale della polemica scaturisce dalla genesi stessa del governo tecnico italiano. Tutti, a Roma come nelle altre capitali più coinvolte, dovrebbero ricordare le forti pressioni, anche da fuori i nostri confini, sulle forze politiche della Penisola, perché facessero un passo indietro, lasciando spazio a un gestione in qualche modo commissariale dell’emergenza economica. Senza quella "forzatura", pur se accolta e controfirmata dai gruppi parlamentari, e ribadita poi in ben 32 voti di fiducia (33 con quello in calendario oggi), Monti non occuperebbe il pulpito dal quale ha pronunciato la sua predica europeista, forse non del tutto "politically correct" ma certamente convinta e documentata.In proposito, e tornando così al capitolo delle rimozioni interessate, stupisce la totale assenza di commenti tedeschi all’ampia parte del colloquio con lo Spiegel, in cui si rimarcano i vantaggi che lo spread tra i bund e i btp consentono da tempo all’economia e ai conti pubblici della Germania. Lo stesso vale per il ruolo di "contributore netto" del nostro Paese nelle operazioni di sostegno agli altri partners in difficoltà: il premier ricorda senza tanti giri di parole che, a conti fatti, per Grecia e Portogallo abbiamo dato più noi di Francia e Germania e che, se si sottraesse dal nostro debito pubblico la quota addossatasi negli ultimi anni dal Tesoro di Roma per prestiti e fondi salva-Stati, oggi il nostro rapporto debito-Pil non sarebbe del 123,4 ma del 120,3 per cento.Viene da pensare, insomma, che certe omissioni non siano assolutamente frutto di distrazione e che, anzi, il tono più o meno scandalizzato dei mass media, oltre che di alcuni importanti esponenti politici renani, dipenda molto dal fastidio di sentirsi una volta tanto non sulla cattedra del maestro, ma tra i banchi di scolari astuti eppure colti in fallo. Di qui l’ultimo e più preoccupante paradosso: i critici del nostro premier hanno preferito non cogliere il suo appello ad evitare che certe occhiute difese di regole e interessi nazionali alimentino sentimenti, già fin troppo diffusi, ostili all’euro e alla costruzione comunitaria. In tal modo hanno dato implicitamente ragione al suo monito. Peccato, avremmo preferito che lo smentissero, magari con fatti concreti.
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