venerdì 28 agosto 2009
COMMENTA E CONDIVIDI
La Perdonanza del terremoto non è come tutte le altre. È speciale. Soprattutto nell’età della mediatizzazione, con gli occhi del mondo puntati sull’Aquila e sull’Abruzzo. Ogni evento che li riguardi deflagra a livello mondiale; nessun notiziario rinuncia a parlarne, trasformando una manifestazione a confine tra religione e folclore, qual era negli anni passati la Perdonanza con i suoi aspetti anche di costume, in qualcosa di trasfigurato. Questa città è stata abitata dal dolore, cinque mesi fa. Ora è una città dove la vita stenta a rientrare, si accampa ai bordi timorosa, nelle baracche di legno che da sempre hanno segnato la sua storia, e si aggrappa al suo straordinario passato. Non ci sono documenti che narrino come fosse la Perdonanza del 1462, dopo il terremoto del 26 novembre 1461, e del 1703, dopo il sisma del 2 febbraio dello stesso anno. Possiamo immaginarlo, dopo quei rovinosi squassi con migliaia di vittime: alienata da sé, per l’impossibilità di razionalizzare la tragedia occorsa; ripiegata su di sé, nel contratto dolore senza parole così abruzzese, che il mondo ha imparato a conoscere, e riconoscere a questa terra, dal 6 aprile scorso; estroflessa verso l’Alterità, in un grido de profundis, in un Credo Resurgam che coniugava la resurrezione secolare della città, con quella corporale dell’ultimo giorno. Sotto un certo profilo non c’è cosa più desiderata, dopo la tragedia del 2009, della Perdonanza Celestiniana. Perché se il terremoto è un ricorrente evento – nei secoli – tutto abruzzese, Celestino V che la istituì è – del pari – un papa tutto abruzzese. Designato dal conclave di Perugia nel 1294, dopo due anni di vacanza della cattedra di Pietro, a seguito della morte di Niccolò IV nel 1292, l’eremita Pietro Angeleri, in fama di santità, discende dal monte Morrone presso Sulmona e risale la valle dell’Aterno per farsi incoronare, il 29 agosto del 1294 non a Roma, bensì all’Aquila nella basilica di Collemaggio. E subito si produce in un atto d’amore che sa ben poco di corte e molto di dirupata montagna: ordina e sigla la bolla della Perdonanza, indulgenza plenaria perpetua, estesa a tutti i credenti in Cristo, come atto incontrollato d’amore per la sua gente e per la sua terra, lasciata con dolore. È un’indulgenza elargita come bonum effusivum sui, secondo il moto per cui il bene tende per natura a promanare da sé. La Perdonanza celestiniana è dunque la meno istituzionale di tutte le indulgenze della storia. Per essere agli antipodi dal commercio che di esse si farà nel tempo e che gioverà loro, nel 1517, l’essere inchiodate da Martin Lutero alle porte della cattedrale di Wittenberg, dando avvio alla Riforma; ma anche per provenire, in modo singolare, da un papa singolare. La Perdonanza sopravvive anche al successore Bonifacio VIII che, appena eletto, tenta di cancellarla con una bolla, ignorata dalla comunità dei fedeli, che la celebrano stretti intono alla santità dell’ex-papa eremita. Per essere un ex, un papa-non più papa, un papa fuggito da Roma, lascia una bella impronta nella Chiesa, Celestino. Un papa eremitico al centro della cristianità. Un papa che scalpita e getta il pallio, raccolto e deposto 700 anni dopo, nel 2009, con affetto, dal suo successore Benedetto XVI sulla teca che accoglie i suoi resti, a Collemaggio. Un papa laico, se volesse usarsi e osarsi una provocazione: giacché oggi di davvero laico, nell’imperante cultura pseudoidentitaria, c’è rimasta solo la confessionalità cristiana, nel recupero della sua radice ecumenica. La Perdonanza è tutto questo. Immediata, istintiva, amorosa, estesa tutti. Lo è dal 1294, da 715 anni. Ma il 715° anno è quello che ha alle spalle il terremoto. Lo è dunque è in modo particolare, carico di metafore, vecchie e nuove, cui ha ridato sangue e palpito la dura prova affrontata dalla città dove fu istitu
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: