Ora è proprio chiaro: la guerra fa deboli
giovedì 7 giugno 2018

Misurare le guerre appare abbastanza facile. Quale che sia la natura di un conflitto armato, alla fine possiamo contare le vittime, i morti e i feriti, oltre alle distruzioni e alle devastazioni che la violenza organizzata determina. Misurare la pace è, invece, più difficile. Ma questo è l’obiettivo, da alcuni anni, dell’Institute of Economics and Peace (Iep) di Sydney che ieri ha diffuso l’indice globale della pace (Global Peace Index, Gpi): una misura di pace 'negativa' multidimensionale, che associa a misure di violenza fattuale o potenziale l’assenza di guerre e altri condizioni di uso della violenza. Il Gpi, infatti, riassume ventitré misure di violenza e altre attività distruttive ulteriormente classificabili secondo tre aree: militarizzazione, sicurezza interna e partecipazione a conflitti armati. In virtù della sua composizione, l’Indice ha il pregio di offrire una misura sintetica delle condizioni di non-pace in un dato Paese in un determinato periodo di tempo. Ebbene, il rapporto 2018 mostra che a livello globale la pace è diminuita anche se sarebbe più opportuno dire che tale diminuzione dei livelli di pace non è però generalizzato: a livello mondiale, quasi la metà dei Paesi, infatti, ha visto aumentare i livelli di pace.

Non stupisce, certamente, che il Medio Oriente sia ancora la regione meno pacifica al mondo. Ma anche l’Europa ha visto peggiorare il suo risultato in virtù di indicatori quali il terrorismo e la percezione di criminalità e violenza politica. Se guardiamo alle performance delle singoli nazioni, notiamo che l’Islanda si conferma la più pacifica al mondo. L’Italia risulta alla 38ª posizione a livello mondiale. Tra gli altri grandi Paesi europei, la Germania si attesta al 17° posto, la Spagna al 30°, la Polonia al 32°, il Regno Unito al 57°, la Francia al 61°. Tra le grandi potenze mondiali, la Cina si ritrova al 112°, gli Stati Uniti al 121° posto e la Russia al 154°.

In linea generale, il deterioramento della pace nel mondo è una cattiva notizia, pur con i dovuti distinguo. A mitigare tale sensazione c’è, però seconda sezione del rapporto dell’Iep, che presenta una misura di pace 'positiva'. Come già ricordato, il Gpi è una misura di pace 'negativa', ma il rapporto dell’istituto di Sydney presenta anche una sezione dedicata a quei fattori, alle istituzioni e alle strutture di uno Stato che contribuiscono alla convivenza pacifica tra Paesi, ma anche alla capacità di venire incontro ai bisogni dei cittadini in seno alle diverse società. La pace positiva è definita in ultima analisi come ambiente ottimale per lo sviluppo del potenziale degli esseri umani ed è misurata attraverso otto aree. Tra queste si ritrovano, ad esempio, le istituzioni che garantiscono la libertà nell’attività economica, un’equa distribuzione delle risorse e una fruttifera accumulazione di capitale umano. In particolare, secondo gli analisti di Sydney, un aumento negli indicatori della pace positiva preannuncia un incremento futuro del Gpi. In altre parole, l’indice di pace positiva anticipa di alcuni anni i miglioramenti o i peggioramenti della misura di pace 'negativa'. Le tendenze dicono che gli indici di pace positiva stanno migliorando in molti Paesi del mondo sebbene tali miglioramenti abbiano perso un po’ di slancio nell’ultimo biennio. In breve, gli attuali livelli di pace positiva fanno prevedere un miglioramento anche delle misure di pace negativa nel futuro. E questa è indubbiamente una buona notizia anche se essa non la si può estendere a tutti i Paesi del mondo. In particolare, nel periodo 2013-2016 oltre al Medio Oriente anche in Nord America e Sud America si riscontrano deterioramenti nell’indice di pace positiva mentre per i Paesi europei tali misure appaiono stabili.

In ogni caso, al di là delle tendenze e delle previsioni in merito alle misurazioni della pace, il valore aggiunto in termini culturali da riproporre con determinazione e insistenza nel discorso pubblico è l’evidenza in merito al fatto che la pace è foriera di benessere e prosperità economiche laddove i conflitti armati, la militarizzazione e la violenza nelle sue diverse forme sono associati a fragilità e debolezza economica. Negli ultimi settanta anni, infatti, la crescita del Pil pro-capite è stato tre volte più grande nei Paesi pacifici rispetto ai Paesi con bassi livelli di pace. Secondo le stime degli analisti di Sydney, inoltre, l’economia globale paga un prezzo di quasi 15mila miliardi di dollari a causa della mancanza di pace. In sintesi, questo rapporto dell’Iep contribuisce a mostrare in maniera chiara che prosperità, sviluppo economico, stabilità e pace sono strettamente interconnessi e che quindi il miglioramento di tali misure dovrebbe essere un obiettivo concreto che i decisori politici hanno il compito di inserire subito nelle proprie agende.

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