mercoledì 31 dicembre 2008
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Auguri, ci diciamo in queste ore. Au­guri, ci rispondono gli altri nel­l’imminenza di questa fine, e inizio, del­l’anno, che ci attende come una frattu­ra del quotidiano fluire delle cose – un fermarsi per un attimo del tempo – per poi riprendere a scorrere. Uguale ma, in una inconfessata attesa, diverso – come nuovo è l’anno che comincia, intonso. Auguri, felice anno, ci ripeteremo dun­que, perché così si usa. Ma se un bam­bino, di quelli piccoli, nell’età in cui, vergini di abitudine, chiedono ancora il perché di tutto, ci domandasse: ma, auguri di cosa?, ecco forse questa do­manda provocherebbe un imbarazza­to sorriso, come davanti a una questio­ne attorno a cui da tempo non ci fac­ciamo più troppe domande. Insomma, si dice auguri, a Capodanno, e vuole di­re: ti auguro buona salute, e serenità, e soldi, e fortuna. Non è forse per queste attese che fanno affari i venditori di o­roscopi? Per l’ansia di sentirsi annun­ciare non straordinarie promesse, ma semplicemente un lavoro, un figlio che si rimetta a studiare, un affare che va­da in porto. Auguri, dunque, di ragio­nevoli private speranze, di cui vivere nell’anno che viene. E però, questo augurio ci basta? Giaco­mo Leopardi immaginò il dialogo, a ca­podanno, tra un passante e un ambu-­lante: «Almanacchi, almanacchi, biso­gnano almanacchi?». Il passante chie­deva al venditore di calendari se sareb­be stato disposto a rivivere uno degli anni passati, anche il più fortunato, però tale e quale. No, rispondeva il mer­cante, «vorrei una vita così come Dio me la mandasse, senz’altri patti». In quel desiderare un anno del tutto 'nuo­vo', del tutto 'altro', desiderio così u­mano e vero, sta una domanda ine­spressa. Nella scansione convenziona­le che stanotte interrompe e ricomin­cia il tempo sogniamo giorni diversi, u­na pienezza più grande dei nostri u­mani bisogni. Una «grande speranza», ha detto Benedetto XVI nella ' Spe sal­vi', al di là di tutte le quotidiane spe­ranze. Perché in realtà tutto, di quelle, ci sarà tolto un giorno. In fondo a noi però, indicibile come una pretesa trop­po audace, sta un’altra aspirazione: «Desideriamo la vita stessa, quella ve­ra, che non venga poi toccata neppure dalla morte», scrive il Papa. Questo silenzioso desiderio ci sta scrit­to dentro. E non solo a chi crede. Pen­siamo soltanto alle cronache di questi ultimi giorni, allo sfacelo di bombe a Gaza e alle promesse di vendetta, o al­la pressione di migliaia di migranti sui nostri confini, avanguardia di masse di disperati che premono, invisibili, ai confini del Primo mondo. Davvero pos­siamo accontentarci delle nostre pic­cole speranze? Quand’anche fossimo noi 'sistemati', la coscienza della vio­lenza che altrove continua, dell’ingiu­stizia, della fame, ci permetterebbe di dirci soddisfatti? Ma allora, potrebbe obiettare qualcuno, il realismo ci dovrebbe rendere dispe­rati. È qui invece che opera la «grande speranza» che il Papa ha ricordato ai cristiani – come temendo che, nell’abi­tudine e nel tempo, ce la siamo di­menticati. La speranza cristiana non è solo un protendersi verso cose che ver­ranno in un giorno lontano, ma, nella certezza di una promessa ricevuta, già cambia il presente – «produce fatti e cambia la vita». Come una donna, che nell’attesa di abbracciare il figlio che aspetta già sia felice, così è la speranza dei cristiani. Speranza di qualcosa che c’è già; ger­me, e a volte invisibile agli occhi; ep­pure vivo. Auguri, dunque, di cosa? Di tutto ciò di cui abbiamo, da uomini, bisogno: di af­fetti e lavoro e amici attorno, a farci co­raggio. Ma auguri, prima di questo, di riscoprire la profondità della domanda che è in noi. Con la domanda autenti­ca verrà la certezza; giacché, come in­tuì Pascal, «tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato».
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