sabato 13 marzo 2021
Molti sono figli di immigrati che non studiano né lavorano. Bisogna investire su scuola, educazione extrascolastica, servizio civile e coinvolgere le religioni
Una scena del film francese «I miserabili», diretto nel 2019 da Ladj Ly

Una scena del film francese «I miserabili», diretto nel 2019 da Ladj Ly

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Una notizia da Torino accende un segnale d’allarme sulle periferie delle nostre città e sulla popolazione giovanile multietnica che le abita: 37 giovani, tra cui molti di origine immigrata, anche minorenni, sono stati arrestati con l’accusa di essere i responsabili di devastazioni e saccheggi commessi nell’ottobre scorso nel centro della città, approfittando di una manifestazione di protesta. I protagonisti se n’erano anche vantati, postando foto e video sui social media, con il contorno di canzoni rap che inneggiavano alla ribellione. Che la legge faccia il suo corso, e che la repressione dei reati sia doverosa, è fuor di dubbio. Ma che sia insufficiente è altrettanto innegabile. Uno Stato che trattasse i problemi sociali – e segnatamente la marginalità giovanile – come una questione di ordine pubblico, e affidasse unicamente alle forze dell’ordine la gestione delle periferie, sarebbe uno Stato miope, destinato a farsi trascinare in una spirale repressiva drammatica e inconcludente.

Il caso torinese richiama precedenti analoghi in altre città europee e nordamericane: la calata sul centro della città e l’assalto ai negozi del lusso come espressione insieme di rabbia, di invidia sociale, di una paradossale forma d’integrazione: la si potrebbe definire un’integrazione illusoria. I responsabili sono infatti giovani tutt’altro che estranei ai gusti, alle mode, alle aspirazioni di benessere dei loro coetanei più fortunati. Anzi, hanno introiettato a fondo, a loro modo, l’idea di un’integrazione sociale mediata dai consumi. Il loro problema consiste nella mancanza delle risorse per accedere legalmente a quei consumi. Su questo substrato s’innesta la rabbia, la voglia di protagonismo, l’impulso a uscire dall’invisibilità a cui si sentono condannati. Come nel film pluripremiato I miserabili di Ladj Ly, cresciuto nello stesso sobborgo parigino che racconta. Il gruppo dà la forza per scatenare le pulsioni: non nella protesta politica, e neppure nella criminalità ordinaria, che rimarrebbe nell’ombra, ma in azioni clamorose e ostentate. Azioni in grado di mettere a soqquadro l’altra città, quella lustra e scintillante dei benestanti.

Il caso dei giovani con ascendenza immigrata confinati nelle periferie rivela la sovrapposizione di diversi fattori di svantaggio: insieme all’origine etnica, la marginalità urbana, l’assai probabile lotta quotidiana con la povertà, il precoce abbandono della scuola (35% tra gli studenti con cittadinanza straniera, ancora più grave per i maschi, contro il 15% per gli italiani), il difficile ingresso nel mondo del lavoro. Si tratta di una situazione ad alto rischio, che purtroppo le versioni fin qui circolate del Piano nazionale di ripresa e resilienza hanno ignorato, nonostante il promettente riferimento alle giovani generazioni contenuto nel sottotitolo 'nextgenerationitalia'. I Neet di origine straniera, ossia i giovani che non studiano e non lavorano, formano in Italia una schiera di 289mila persone, senza contare quelli che hanno acquisito la cittadinanza (Fabio Colombo, Le Nius). È un’ipoteca che pesa sul futuro di tutti, non solo sul loro.

Cerchiamo allora di contribuire al dibattito con qualche proposta di intervento, lasciando da parte in questa sede gli ambiziosi piani di rinnovamento delle periferie che richiedono tempi più lunghi e ingenti risorse. Il primo punto di riferimento non può che essere la scuola. La proposta consiste nell’individuare le scuole dei quartieri più problematici delle nostre città, e in particolare il 7% di scuole che hanno più del 30% di alunni con cittadinanza straniera, come destinatarie di risorse supplementari, sull’esempio francese: classi più piccole, più insegnanti, più mediatori interculturali, più fondi per attività integrative, più progetti di collegamento con il mondo associativo esterno e il territorio.

In concomitanza, occorre investire in secondo luogo sull’educazione extrascolastica e sulle forze vive della società civile. È sbagliato credere che le periferie siano dei deserti dal punto di vista civico e associativo. In realtà, molto spesso brulicano di iniziative. Si tratta di chiamarle a raccolta, dotandole di maggiori risorse per organizzare attività di sostegno scolastico, animazione, accompagnamento dei ragazzi con maggiori difficoltà. I tagli della finanza pubblica non hanno colpito solo scuola e sanità, ma hanno falcidiato anche le iniziative di aggregazione giovanile e le attività educative extra-scolastiche. Proprio quando ce ne sarebbe più bisogno, con la crescita di una fascia di giovani di seconda generazione a rischio di emarginazione.

La terza proposta coinvolge il Servizio civile. Serve un piano straordinario di reclutamento di operatori volontari da destinare a progetti di rinnovamento, abbellimento, animazione delle periferie: ne servirebbero almeno 20mila, da destinare al almeno 400 progetti locali. Progetti non solo destinati ad accogliere giovani istruiti (nel 2020 i partecipanti erano per il 66% in possesso di un diploma e per il 24% studenti universitari o laureati), ma focalizzati (anche) sul recupero e l’integrazione dei giovani Neet, e pure di quelli colpiti da provvedimenti penali. La cittadinanza attiva è il miglior rimedio all’esclusione sociale.

Da ultimo, un salto di qualità nel presidio educativo delle periferie non può prescindere dal coinvolgimento delle istituzioni religiose che vi operano. Le parrocchie cattoliche con i loro oratori, spesso unici spazi di gioco aperti a tutti, gratuitamente, ma pure i luoghi di culto e aggregazione delle altre religioni. Compreso l’islam: anch’esso capace di organizzare forme di welfare dal basso per i poveri e attività educative per i giovani, contrastando le derive devianti. Serve a livello nazionale una ripresa del dialogo, su cui il governo Gentiloni aveva compiuto importanti passi avanti, e serve a livello locale uno sguardo diverso sul ruolo che istituzioni musulmane collaborative possono svolgere per l’integrazione delle seconde generazioni. Il caso di Torino insegna che il disagio delle periferie prima o poi si ripercuote sul centro, e che l’esclusione dei giovani di seconda generazione si traduce in problemi di coesione sociale che riguardano tutti. Dobbiamo intervenire, anche grazie alle risorse ora finalmente disponibi-li, prima che sia troppo tardi.

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