martedì 7 dicembre 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
Chi va in bici fa presto ad abituarsi agli incidenti. Tenere il conto delle vittime diventa, con il tempo, una dolorosa assuefazione. Ogni ciclista ha un amico che ha lasciato vita e sogni in un rettangolo di asfalto, spesso infranti dall’arroganza di un automobilista. Eppure quando si pedala non si pensa al rischio che si corre, al pericolo in agguato dietro una curva. Ci si abitua a tutto: alle strade dissestate che costringono a zigzagare per evitare le buche, ai camion che sfrecciano oltre il limite trascinando le bici nel vortice dello spostamento d’aria, alle macchine che invadono la carreggiata o che tagliano bruscamente la strada come se il ciclista fosse invisibile. L’incidente di Lamezia Terme fa scalpore per la sua tragica contabilità (sette morti), non certo per la dinamica. In questi anni il dibattito sulla sicurezza stradale è stato esclusivo appannaggio dei veicoli a motore, ignorando, o quasi, le biciclette. Eppure in Italia ci sono decine di migliaia di appassionati che ogni domenica si riversano sulle strade in sella alle loro bici da corsa, pronti a vincere il loro personale Giro d’Italia e con la maglia rosa che prende le sembianze di un cappuccino pagato dall’amico superato sulla cima di un colle. Non siamo abituati a pensare a chi usa la bici da corsa per fare della sana attività fisica, ma non si pensa nemmeno a coloro che quotidianamente scelgono la bicicletta per muoversi nelle loro città. Alle bici non si pensa nemmeno quando si progetta il futuro urbanistico. La viabilità alternativa, sotto forma di piste ciclabili, resta (quasi) sempre sulla carta e nei proclami elettorali. La maggior parte delle piste realizzate, comunque poche per un Paese moderno, non rispondono ai requisiti minimi richiesti. Molte amministrazioni locali immaginano la pista ciclabile come una sorta di "riserva indiana", qualcuno le considera addirittura "arredo urbano".Nell’immaginario di molti, la pista è quasi più pedonabile che ciclabile. Non si riesce ad andare oltre, a concepire uno spazio nel quale creare davvero una viabilità alternativa, da sfruttare anche come risorsa turistica. Le eccezioni sono pochissime. I buoni esempi, a macchia di leopardo, sono offerti dalle regioni settentrionali. Le risorse economiche ci sarebbero pure, l’Unione Europea prevede ricchi finanziamenti, ma i fondi vengono dissipati in progetti "minimi", fine a se stessi. I Paesi del Nord Europa sono lontani anni luce. Hanno creato una fitta rete di strade a uso esclusivo delle biciclette, nonostante che lì il clima non sia esattamente favorevole. Ma il problema della sicurezza di chi va in bicicletta è più ceh mai cruciale. Lo è ancora di più per chi pratica il ciclismo a livello agonistico o semplicemente cicloturistico. L’uso del casco è diventato, ormai, una sana abitudine e la prudenza sulle strade un’indispensabile necessità. E se nessuna precauzione mette davvero al riparo dai rischi, bisogna pur adottarle, pensando soprattutto ai più giovani, ai bambini che decidono di inforcare una bici per seguire le orme di Nibali o Cunego. S’impone, insomma, la necessità di ripensare anche il futuro di questo sport (il più popolare dopo il calcio), e pretendere strutture appropriate: ad esempio, circuiti ad hoc, di due o tre chilometri, ricavati in piccoli appezzamenti di terra. Il costo dell’impianto sarebbe modesto, una striscia di asfalto larga quattro metri e una rete per la recinzione. Irrisoria anche la spesa per la manutenzione che si traduce nel taglio dell’erba un paio di volte all’anno.In Italia c’è un proliferare di campi sportivi, cari a farsi e a mantenersi. Strutture sottoutilizzate, a uso esclusivo di pochi. Altre discipline hanno a disposizione palestre e palasport. Per il ciclismo c’è solo la strada, nel far west del traffico sempre più caotico, con annessi rischi e pericoli. Non è giusto. Non può durare. E soprattutto non si deve continuare a morire.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: