Non cresca il declino
mercoledì 22 settembre 2021

Qualcuno parla già di «prodigio» per la crescita economica stimata quest’anno al 5,9-6%. Tanto da far ipotizzare al governo un aumento complessivo del Pil nel biennio di 10 punti. Percentuali 'cinesi', che l’Italia non vede da oltre mezzo secolo, ma che in buona parte sono un semplice rimbalzo dopo che il nostro Pil ha perso d’un botto l’8,9% nel 2020 a causa dei lockdown per il Covid.

Andiamo bene, non benissimo però. Se davvero crescessimo complessivamente del 10% di qui a fine 2022, infatti, ci ritroveremmo comunque poco al di sopra dei livelli di ricchezza immediatamente precedenti alla pandemia, comunque inferiori a quelli dei nostri partner-competitori dell’Unione Europea, che nel decennio precedente hanno corso più di noi.

Se, infatti, sul piano meramente congiunturale il bicchiere è pieno per metà, su quello strutturale resta più che mezzo vuoto. Basta qualche cifra per rendersene conto. Il Pil pro-capite italiano nel 2007, prima dunque della grande crisi finanziaria, ammontava a 30.551 euro. Oggi è calato drasticamente a 26.453 nell’annus horribilis del Covid, ma anche precedentemente nel 2019 era fermo a 28.892. Veniamo cioè da 12 anni di crescita zero e quando pure avremo riconquistato il livello di benessere economico precedente alla crisi sanitaria saremmo indietro di 15 anni rispetto a Germania, Francia e Spagna che hanno recuperato meglio la crisi del 2008 e hanno registrato progressi meno stentati nell’ultimo lustro prima dell’arrivo del virus.

C’è poco da dire: contiamo meno e siamo meno competitivi. All’alba di questo secolo, l’Italia vantava il 17,7% del Prodotto interno lordo dell’Unione Europea oggi siamo scesi al 14,5%. Può sembrare poca cosa e invece si tratta di una perdita di 'peso' di quasi un quinto.

I nostri mali li conosciamo bene: un sistema fiscale penalizzante per occupazione e produzione, causato anche da un’evasione record; una giustizia lenta e ingolfata; un peso abnorme del debito pubblico che fa il paio con un’amministrazione statale in molti casi inefficiente; un mercato del lavoro in cui domanda e offerta faticano a incontrarsi e che presenta ancora vaste aree di degrado in termini di sfruttamento e mancanza di formazione adeguata; ritardo tecnologico e poche grandi imprese. Sono, non a caso, i temi sui quali il governo conta di agire con le riforme del Pnrr, finanziato con i fondi europei: ultima occasione per una svolta. Ma, in particolare nella discussione politica, rischiano di restare in ombra almeno due temi fondamentali che riguardano in particolare (anche se non esclusivamente) i giovani: la questione salariale e quella demografica più in generale.

Su quest’ultima, un dato più di tanti altri può aiutarci a comprendere: negli anni del boom economico i giovani sotto i 29 anni rappresentavano oltre la metà della popolazione italiana, oggi sono ridotti a poco più di un quarto (28%). Ancora, ci sono 180 persone con più di 65 anni ogni 100 ragazzi fino a 14 anni e oltre la metà della popolazione è inattiva. Un cambiamento drammatico, destinato per sua natura a frenare lo sviluppo di una nazione. Eppure oggi i partiti politici discutono ancora e sempre di misure previdenziali come 'Quota 100', assai costosa e per nulla a favore dei giovani.

Mentre su provvedimenti di giustizia sociale e che favoriscano la crescita demografica quale l’atteso assegno universale per i figli, già si vocifera – e speriamo che siano solo voci – di un ridimensionamento degli stanziamenti e delle ambizioni di renderlo concreto davvero per tutte le famiglie. Una completa disattenzione che grava allo stesso modo sulla questione salariale. I dati sono presto detti: da noi il salario medio si aggira sui 30mila euro lordi l’anno – 9mila in meno della Francia, 12mila in meno rispetto alla Germania – ma 1,7 milioni di lavoratori non arriva a guadagnare 500 euro al mese, 5 milioni si fermano a 10mila euro l’anno e in totale 15 milioni di dipendenti, ben il 65% degli occupati, rimangono sotto la soglia del salario medio a 29mila euro lordi (circa 1.700 euro netti al mese).

La situazione è ancora più drammatica per i giovani che scontano maggiore precarietà dei rapporti e salari d’ingresso decurtati. In questi stessi giorni, in Spagna il governo ha appena varato un aumento del salario minimo a 965 euro mensili con l’obiettivo di arrivare a quota 1.050 euro nel 2023. Da noi il tema del salario minimo (proposto a 9 euro l’ora) è stato accantonato, mentre la contrattazione fatica a tenere insieme difesa dell’occupazione e crescita salariale. Ma anche di questo non c’è traccia nel dibattito politico. Così come, su ogni scelta politica, di una prospettiva che guardi anzitutto alle prossime generazioni. Ci si culla nell’illusione che bastino l’export e buone pensioni per far ripartire l’Italia. Ma senza la spinta dei giovani e senza una valorizzazione delle retribuzioni, il destino del Paese continuerà a far rima solo con declino.

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