Interventi per la genitorialità
giovedì 29 novembre 2018

Il dato complessivo sul nuovo record al ribasso era già noto. La notizia non sta dunque nei 458mila nati conteggiati da Istat nel 2017, ma in alcune caratteristiche di dettaglio che accompagnano questa "denatalità" dilagante. Si tratta di elementi che aiutano a capire i comportamenti che stanno alla base del fenomeno e di cui andrebbe tenuto conto al fine di attivare iniziative per risollevare la vitalità demografica di un Paese che sembrava destinato a scendere sotto la soglia dei 450 mila nati solo nel lontano 2045 – stando alla variante "mediana" delle stime ufficiali più aggiornate (Istat 2017) – ed è invece facile che ci arrivi con oltre vent’anni di anticipo.

O almeno così sembra debba accadere se, alla chiusura del bilancio del 2018, si confermerà l’ulteriore calo del 3,5% (circa altre 16 mila nascite perse su base annua) che emerge dal confronto tra il totale dei nati nei primi sette mesi dell’anno in corso e quello relativo allo stesso periodo del 2017. Così che, anche per il 2018 – come è accaduto in ogni anno del triennio 2015-2017 – registreremo un saldo naturale negativo (più morti che nati) di quasi 200 mila unità e vedremo la popolazione residente proseguire lungo la discesa inaugurata nel 2015.

A fronte di un tale scenario, oggettivamente poco confortante, sembra importante riflettere sui fattori che influenzano il comportamento riproduttivo della popolazione italiana e alimentano questi risultati. In tal senso, il Report "Natalità e Fecondità della popolazione residente. Anno 2017", che Istat ha appena diffuso, ci aiuta non solo a formulare una corretta diagnosi di questo malessere demografico, ma forse può anche suggerirci una terapia per avviarne la cura.

Innanzitutto ci sono da mettere in conto elementi di cambiamento strutturale. Con l’uscita dall’età feconda delle donne nate negli anni ’60-’70 si è infatti via via ridotto il numero di potenziali madri e questo spiegherebbe circa tre quarti del calo della frequenza di nati tra il 2008 e il 2017. A ciò si aggiungono nuovi significativi orientamenti riguardo ai tempi delle scelte familiari e genitoriali: dal ritardo nell’avvio della vita di coppia, allo spostamento in avanti dell’età alla maternità, salita di oltre 2 anni tra il 1995 e il 2017 (che diventano 3 se si considera l’età alla nascita del primo figlio).

Con tali premesse, mentre il modello del figlio unico può dirsi ormai fortemente accreditato, assume crescente rilievo anche il fenomeno di rinuncia alla genitorialità. I dati mostrano come, a partire dagli anni della crisi (2008), i primi figli siano diminuiti del 25% (contro un -17% tra gli ordini successivi).

E come le donne senza figli siano aumentate da poco più di una su dieci nelle generazioni nate negli anni ’50 e ’60, al 22% (quasi una su quattro!) tra le donne nate alla fine degli anni ’70. Non serve grande lungimiranza per capire che, da un tale stato di cose ben difficilmente si potrà ricavare quell’apporto di capitale umano che serve al Paese per garantirgli sviluppo e soprattutto per dare sostegno alle crescenti esigenze che vanno prospettandosi sul fronte del welfare.

Occorre dunque cambiare le condizioni di contesto entro cui maturano le scelte riproduttive. E occorre farlo in fretta, senza illudersi che esistano magiche soluzioni. Se vogliamo affrontare seriamente il problema dobbiamo farlo combinando gli strumenti della politica e della cultura. Ad esempio, dobbiamo prendere atto che sino ad ora è stata la logica del contrasto alla povertà a dominare le scelte di politica familiare, non il sostegno alla natalità. Abbiamo spesso introdotto – anche per oggettive difficoltà di bilancio – soglie di reddito destinate ad escludere gran parte delle famiglie da qualunque forma di supporto alla genitorialità.

Ciò mentre l’esperienza di altri Paesi ha chiaramente mostrato che l’unica efficace strategia di contrasto alla denatalità è quella derivante dalla combinazione tra servizi di cura (accessibili), misure di conciliazione tra maternità e lavoro e interventi fiscali e di supporto economico concepiti a favore (anche) della classe media. I 200 mila nati in più (con circa la nostra stessa popolazione) in un Paese come la Francia o la crescita di 100 mila registrata in Germania nell’ultimo quinquennio – quando da noi accadeva il contrario – sono la dimostrazione che non è con sussidi riservati ai redditi più bassi, di importo modesto e limitati nel tempo che si raddrizzano le tendenze.

Occorrono risorse nuove ma servono anche capacità (e fantasia) per immaginare soluzioni nuove, o semplicemente per recuperare e valorizzare quelle indicazioni – tipo alcuni spunti del Piano Nazionale sulla Famiglia fermo al palo dal 2012 – che possono avviare la cura di questa nostra demografia malata.

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