sabato 10 dicembre 2011
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La lunga notte dell’euro, una maratona che ha tenuto desti i capi di Stato e di governo dell’Unione Europea fino all’alba, si conclude con un accordo intergovernativo che definire un insuccesso sarebbe a nostro avviso un peccato di miopia. È vero, non si è riusciti a cucire un nuovo Trattato attorno alla ridefinizione delle politiche di bilancio e all’unione fiscale, così come si è rimandato – nonostante la forte perorazione italiana – il tema degli Eurobond. Ma la rigida chiusura della Gran Bretagna, le troppe insormontabili condizioni di privilegio poste dal premier David Cameron a Francia, Germania e Italia, richieste che hanno provocato il fallimento di un’intesa all’unanimità, nascondono a loro modo un pregio.Con questa Europa a due velocità (l’espressione è attribuibile a Jacques Chirac), ovvero con il Regno Unito fuori dalla porta, si ritorna paradossalmente a una chiarezza d’intenti che non si vedeva dall’epoca del lungo premierato di Margaret Thatcher. Con la “Signora di Ferro”, di cui Cameron va considerato un tardo epigono, l’Europa sapeva di poter contare su se stessa e al tempo stesso di non potersi mai fidare troppo del Regno Unito. Il quale vantava (e vanta) moneta propria, regole fiscali proprie, meccanismi finanziari esclusivi e tutta una serie di "opt-out" (il diritto cioè di non partecipare ad accordi comunitari, come quello di Schengen) che gli assicurano un trattamento di assoluto vantaggio.Basterà questo accordo a 26 a tamponare l’emorragia dell’euro? A vent’anni esatti di distanza dalla firma del Trattato di Maastricht, l’Europa che verrà avrà regole fiscali e politiche di bilancio più stringenti, avrà maggiori risorse e più fondi per contrastare gli assalti speculativi ai debiti sovrani dei Paesi più fragili e, soprattutto, meccanismi di “governance” più appropriati e più completi. Scegliendo di adottare il “fiscal compact” – il modello di “accordo con regole” concepito e illustrato pochi giorni fa al Parlamento europeo dal presidente della Bce Mario Draghi – i diciassette Paesi dell’eurozona e i nove membri che li seguiranno a breve costruiscono da oggi un “firewall”, un muro di fuoco, contro gli assalti speculativi.Non è la soluzione definitiva né il superamento della crisi, ma è un significativo passo in avanti. «E sono proprio questi passi – dice la cancelliera Merkel – a far riguadagnare la fiducia nell’euro». E a proposito di fiducia non possiamo non rimarcare come l’Italia abbia rapidamente riguadagnato il proprio posto di membro fondatore e di terza economia d’Europa, con la capacità di mediazione e di “moral suasion” che le era storicamente riconosciuta.Non nasconde il suo ottimismo lo stesso Mario Monti, persuaso che perfino il tema degli Eurobond finirà per tornare sul tavolo dei negoziati. «L’idea – dice – non è affatto soppressa». Ottimismo, a quanto sembra, contagioso: a giudicare dalla loro prima reazione le conclusioni del vertice sembrerebbero avere fornito ai mercati una robusta iniezione di fiducia. L’Europa brinda, Wall Street la segue a ruota. Se vincitori vi sono stati nella notte dell’euro, ad Angela Merkel va senz’altro il primato, così come Italia e Francia (ma non dimentichiamo lo sforzo comune di tutti i membri di buona volontà) hanno ben figurato. Resta lo screzio profondo fra Londra e Parigi. De Gaulle si oppose a lungo all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità economica europea. Oggi il suo sogno in parte si avvera per mano del giovane leader Cameron. Svariate volte i giornali britannici – con sprezzo del ridicolo – hanno titolato: «Nebbia sulla Manica, il Continente è isolato», rivelando con ciò una propensione tolemaica al proprio ruolo di centro immobile del mondo. In tutta franchezza ci sembra di poter capovolgere questa famigerata espressione, e dire che mai come oggi l’Inghilterra è sola. Con i suoi privilegi, ma soprattutto con le sue paure e la sua corta veduta. Che sia colpa della nebbia?
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