Maestre e maestri di ieri e di oggi, alleanza da rilanciare
sabato 12 novembre 2016

Caro direttore,
rammento ancora il mio primo giorno di scuola: trentadue piccole menti pronte a essere forgiate da una figura autorevole e rispettabile, rappresentata dalla maestra. Se all’inizio la tolleranza dell’insegnante era abbastanza larga, vista l’età degli scolari, questa diveniva sempre più intransigente col passare degli anni. Bastava un suo sguardo più intenso, nei nostri riguardi, per ricondurre tutta la classe all’ordine e al silenzio. Nessuno si sarebbe mai permesso di contestare o interrompere la lezione. Un bambino disubbidiente sarebbe stato prima rimproverato dalla maestra, successivamente redarguito (e anche punito) dai genitori. Oggi nelle scuole elementari si respira tutt’altro clima. I genitori non collaborano più con gli insegnanti, con l’intento comune di far progredire il figlio, ma si limitano a comportarsi da manager; contestando e rispedendo al mittente qualunque provvedimento disciplinare nei confronti della loro prole. I risultati non si fanno attendere: l’autorevolezza dell’insegnante sarà compromessa alle fondamenta, di conseguenza anche il rispetto dei suoi alunni ne risentirà. I bambini non avranno eccessivi scrupoli nel disattendere le richieste della maestra e quelli più “movimentati” si sentiranno in diritto di rispondere con parolacce e gestacci. In questo contesto i social network non sono certo d’aiuto: proliferano, infatti, gruppi Facebook e Whatsapp, dove i genitori trovano il modo analizzare e criticare pesantemente qualunque comportamento della maestra; dal loro opinabile punto di vista soggettivo. Probabilmente non ci sono più le condizioni per insegnare in tranquillità; al fine di perseguire la maturazione e l’arricchimento culturale degli scolari. L’ostruzionismo ipercritico da parte dei genitori finisce per produrre un sentimento anarchico che si ripercuoterà sulla necessaria serenità della classe; rendendo quasi impossibile esplicare le funzioni d’insegnante.
Fabrizio Vinci, Messina

Lei, gentile signor Vinci, torna a porre un problema serio, che purtroppo continua, per certi versi si aggrava e perciò riaffiora costantemente sulle nostre pagine. Dico subito che condivido i suoi timori e la sua conclusione: la perdita (o addirittura il disprezzo e persino la deliberata rottura) della fiduciosa cooperazione tra genitori e insegnanti è uno degli aspetti più gravi della crisi, nella nostra società, del condiviso ruolo educativo degli adulti nei confronti dei più giovani. Alle sue annotazioni, tutte tese a caricare su padri e madri la responsabilità di questo processo negativo, mi pare necessario e utile aggiungerne una: ci sono state (e ci sono) anche responsabilità della scuola, di dirigenti scolastici e insegnanti, che non possono essere sottovalutate non solo nel demitizzare il ruolo del docente, ma nel rinchiuderlo nello stereotipo (sbagliatissimo) della controparte polemica e aggressiva verso ragazzi e famiglia. Penso, in particolare, ad alcune pretese “dirigiste” su questioni delicate come l’educazione al cosiddetto “gender” con tutte le forzature, gli equivoci e le esasperazioni che ne sono seguite e che ancora si producono. L’alleanza scuola-genitori – all’interno della quale la libertà e la responsabilità dei “maestri” si incontra con la libertà delle famiglie e la ricchezza delle nuove generazioni – è, invece, un bene prezioso che va capito, preservato e rilanciato.

Ma l’incipit della sua lettera, gentile amico, mi spinge ad andare a mia volta sul filo dei ricordi. Appena diversi dai suoi, perché durante i cinque anni delle scuole elementari io ho avuto un maestro, non una maestra. Anche se in realtà una maestra l’ho sempre avuta accanto, visto che proprio quello era il mestiere di mia madre, Graziella, e che fu lei a insegnarmi per prima a leggere e a scrivere. Un “gioco” che ho appreso da piccino e che non ho più smesso, vivendolo da allora a oggi come tale. Un gioco bellissimo, e serio. Qui dico una cosa personale, ma che penso possa essere condivisa da tanti, se appena ci si riflette su: ogni volta che prendo la penna o apro un testo (anche in epoca digitale) io sono assieme alla mia prima maestra, e madre, anche se lei non è più qui, così come sono accanto a tutti coloro che mi hanno insegnato a intendere e a usare ciò che riesco a trasformare in parola-segno e a cogliere nelle parole-segni che percorro con lo sguardo.

Così come sono vicino a chi ha scritto o leggerà le parole e i numeri che si compongono, poco a poco, sotto ai miei occhi. È questo il miracolo della scrittura, della lettura, della comunicazione. Un «miracolo» semplice, che avviene, e si ripete, nello spazio e nel tempo. Per questo sono così importanti coloro che ci danno gli strumenti per esserne capaci, anzi – me lo lasci dire con un po’ di enfasi – per esserne degni. Lei – ripeto – lo dice bene, puntando il dito su genitori che sembrano aver dimenticato, o non aver mai capito, questa profonda e fondamentale verità. Che anch’io custodisco assieme a memorie carissime. E chiaro e caro è il ricordo del mio maestro. Un ricordo nutrito di rispetto. Un rispetto pieno e consapevole, che neanche il dissenso (da bambino e, ora, da adulto) per alcuni suoi modi di fare ha mai intaccato. Si chiamava Guglielmo Brunozzi, era un uomo probo e appassionato, colto e rigoroso. Mi ha insegnato molto, anche a non arrendermi davanti alle incomprensioni. È morto da poco, nella sua e mia Assisi, dopo aver oltrepassato la soglia dei cento anni. Rimpiango solo di averlo saputo troppo tardi, e di non avergli potuto dare, pubblicamente, un saluto colmo di affetto e di riconoscenza. Le sono grato, caro amico lettore, anche per avermi spinto a farlo ora.

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