Lo scandaloso no a Jurida K. (umiliare i cittadini di fatto)
giovedì 14 ottobre 2021

Non di rado le attuali politiche dell’immigrazione e regole sulla cittadinanza vecchie di quasi trent’anni producono esiti paradossali, persino grotteschi. Incredibile è la vicenda di Jurida K., cittadina albanese ma da 23 anni residente in Italia: pochi giorni fa si è vista negare la cittadinanza a causa di un tamponamento risalente al 2005, che le è costato nel 2009 una condanna a 600 euro di multa da parte di un giudice di pace, sanzione poi cancellata da un’amnistia.

Tanto è bastato al Ministero dell’Interno per negarle la cittadinanza con questa severa motivazione: «Non ha dato prova di aver raggiunto un grado sufficiente di integrazione nella comunità nazionale, desumibile in primis dal rispetto delle regole di civile convivenza». La signora, sposata con un italiano, ha due figli italiani e insieme al marito gestisce un’attività economica, una piccola compagnia di bus turistici. Produce quindi reddito, dà lavoro, paga tasse e contributi. Ma neppure questo è bastato ai severi funzionari ministeriali. Mediante norme sovrapposte e intricate, procedure burocratiche contorte e inafferrabili, interpretazioni discrezionali e punitive dell’amministrazione statale, e spesso, concretamente, del funzionario che esamina la pratica, la regolazione politica dell’immigrazione produce un ginepraio da cui uscire indenni è arduo. È così anche nel caso di un atto di grande valore civico e simbolico come la domanda di naturalizzazione da parte di cittadini stranieri che risiedono nel nostro Paese da diversi anni: un atto che nelle loro aspettative, e nello spirito delle norme stesse, dovrebbe coronare il loro percorso di integrazione nella comunità nazionale. Abbiamo molto dibattuto in questi anni intorno a Ius soli e Ius culturae, agli anni di residenza richiesti (dieci anni per i cittadini extracomunitari), al tempo aggiuntivo che la macchina dello Stato si attribuisce per esaminare la domanda (altri due anni, ma erano saliti a quattro con i cosiddetti decreti sicurezza della gestione salviniana).

Non ci siamo interessati abbastanza, invece, della discrezionalità che il Ministero dell’Interno si attribuisce nel valutare le istanze. Un punto su cui invece insistono i giuristi che si interessano della questione, riuniti nell’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), sentiti al Cnel nei mesi scorsi nell’ambito di un ciclo di audizioni sulle proposte di riforma del Codice della cittadinanza. Lo stesso Dipartimento delle libertà civili e dell’immigrazione (Ministero dell’Interno) ribadisce sul suo sito che «sulle richieste di cittadinanza l’Amministrazione gode di un ampio margine di discrezionalità», citando a supporto una sentenza del Tar del Lazio del 2009. In altri termini, un funzionario può decidere dell’idoneità di un cittadino straniero a diventare italiano sulla base delle proprie personali valutazioni circa il grado d’integrazione raggiunto dal richiedente. Come mostra il caso in esame, può bastare molto poco per indurlo al diniego.

Se altre volte è l’indigenza economica, la disoccupazione, la precarietà abitativa a motivare una decisione negativa, in questo caso l’intraprendenza e la contribuzione fiscale non sono bastate a conferire una patente d’integrazione. Un argomento sottostante, in difesa di un simile atteggiamento restrittivo, richiama i numeri degli acquisti di cittadinanza che ogni anno avvengono, malgrado le norme italiane siano le più penalizzanti dell’Europa occidentale: 132.700 nel 2020, 127.000 nel 2019, 112.000 nel 2018. Numeri tra i più alti d’Europa. L’argomento però non tiene conto del fatto che l’immigrazione in Italia è un fenomeno relativamente recente, e in gran parte concentrato nel ventennio 1990-2010. Che un certo numero di quei nuovi residenti, in percentuale neppure molti, avendo maturato l’anzianità necessaria e riuscendo a soddisfare gli altri requisiti, di occupazione e di reddito, presenti domanda di naturalizzazione è fisiologico.

Sta avvenendo in Italia, con lentezza e fatica, ciò che è avvenuto negli altri grandi paesi d’immigrazione nei decenni passati. Metabolizzare i flussi migratori è un passo verso un futuro di buona convivenza. Qui interviene un altro paradosso: se la signora Jurida avesse motivato la sua domanda di naturalizzazione in base al matrimonio con un cittadino italiano, la rigorosa macchina ministeriale avrebbe avuto pochi margini di manovra per negargliela. In quel caso, gli incidenti stradali e le relative condanne non rilevano. Il nostro codice della cittadinanza è familista: ammette discendenti anche lontani di antichi emigranti italiani e accoglie con favore i coniugi. Con un liberalismo maggiore della media europea, consente la naturalizzazione del coniuge straniero dopo un anno di residenza in Italia se ha avuto figli, dopo due se non ne ha. La signora Jurida ha pagato uno scotto per la scelta orgogliosa di chiedere la cittadinanza per il suo percorso personale, e non in virtù del matrimonio. L’ammissione nella comunità nazionale di uno straniero è un passo importante e merita ponderazione. Non è sensato ammettere chiunque, senza considerare il suo curriculum. Ma appare ancora meno sensato negare lo status di cittadino a persone integrate, laboriose e meritevoli come la signora in questione. Per fortuna in uno stato di diritto esiste l’appello, per rimediare alle storture.

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