giovedì 24 marzo 2011
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Almeno un passo avanti per uscire dal pasticcio del comando politico-militare della coalizione è stato compiuto. I margini di ambiguità restano consistenti, ma se non altro siamo usciti da quella sensazione che stava impadronendosi dei protagonisti. Potremmo definirla la "sindrome di Suez", in onore dell’infausta spedizione anglo-francese del 1956, che si trascinò per qualche tempo anche quando era chiaro che i suoi scopi erano falliti. Fino a 24 ore fa la paura di un flop, disastroso per tutto l’Occidente almeno quanto lo fu per Parigi e Londra il disastro del ’56, aleggiava sempre più densa. Addirittura erano già evidenti le schermaglie volte a individuare un capro espiatorio, qualcuno da lasciare col classico cerino in mano. E l’Italia era purtroppo in ottima posizione per ottenere la nomination, non tanto per oggettivi errori suoi, quanto per l’astuzia francese e le solite indecisioni americane. Quando la grande rivolta araba del 2011 sarà terminata – e prima o poi succederà – dovremo tornare a riflettere sulla grave carenza di leadership mostrata da Obama, prima ancora che dalla sua amministrazione, in frangenti tanto drammatici quanto decisivi.Sono stati proprio la confusione, la timidezza e i ritardi della Casa Bianca a consentire che Gheddafi potesse illudersi di chiudere la partita col suo popolo alla sua maniera: dichiarandogli guerra. È stata la reazione impacciata e titubante di Washington a spingere la Francia ad assumere l’iniziativa all’alba di sabato scorso, impedendo alle colonne corazzate del colonnello di prendere Bengasi e irridere le risoluzioni delle Nazioni Unite. Una volta assunta sul campo l’iniziativa, Parigi ha tentato (sbagliando) di trasformarla in una leadership politico-militare, portando allo scoperto in meno di 48 ore tutte le fragilità e i distinguo interni alla composita coalizione e quasi perdendo per strada il fondamentale sostegno della Lega Araba. Il punto inaccettabile lo ha chiarito bene ieri il ministro degli Esteri Frattini al Senato: «Era necessario partire con un’azione urgente che scongiurasse il massacro dei civili», ma ora l’Italia vuole «evitare il rischio di essere corresponsabile di azioni non volute», cioè decise da altri e su cui non ci sia il nostro consenso esplicito.La questione non sta nella rimozione o meno di Gheddafi, giacché, come ha dichiarato lo stesso Frattini, «l’unica precondizione posta dalla comunità internazionale è l’abbandono del potere da parte di Gheddafi», ma riguarda le modalità con le quali la protezione della popolazione e la rimozione di Gheddafi vengono ricercate e possibilmente ottenute. A tal scopo, anche se non nell’immediato, l’embargo all’importazione di armi da parte libica è fondamentale quanto le azioni di bombardamento. È singolare che una Risoluzione assunta prima (la 1970) trovi solo ora applicazione. Ed è positivo per l’Italia che le venga delegato il comando della componente navale.Al di là dei piccoli passi avanti compiuti ieri, quello che sta emergendo da questa crisi è che, quando gli Usa si defilano, i Paesi europei della Nato (che praticamente coincidono con i membri della Ue) non riescono a trovare le modalità per esprimere un consenso condiviso e stabile. Da un lato nessun Paese del Vecchio Continente può illudersi di rimpiazzare gli Stati Uniti, per il motivo lapalissiano che nessun Paese europeo garantisce per la sicurezza collettiva degli altri (come invece fanno gli americani). Dall’altro, in assenza di una leadership riconosciuta e accettata, le modalità di cooperazione diventano estremamente farraginose perché ogni singolo Paese può in qualunque momento decidere di ritirare il proprio consenso e la propria partecipazione (in termini di basi, aerei e navi) qualora la piega che gli eventi vanno prendendo non lo soddisfi.Dopo il fallimento del Trattato costituzionale, i Paesi dell’Unione si erano illusi che la via delle cooperazioni rafforzate o delle geometrie variabili avrebbe consentito all’Unione di assumere e implementare decisioni in politica estera e di sicurezza; la crisi libica sta dimostrando quanto una tale speranza sia una pericolosa illusione. Simili modalità sono già ardue da far funzionare quando le poste in gioco sono di natura essenzialmente economica. Lo sono ancor di più quando questioni di sicurezza sono effettivamente e pericolosamente a tema. Diventano impossibili, se non addirittura dannose per la stessa solidarietà europea, quando devono affrontare sfide che vedono inestricabilmente intrecciati gli aspetti economici e quelli della sicurezza. Come stiamo sperimentando in questi giorni.
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