Le dicerie fanno male (e non è un modo di dire)
mercoledì 24 aprile 2019

A fine marzo, in sequenza impressionante, nei dintorni di Parigi vi sono stati 35 attacchi contro persone rom, o presunte tali. Attacchi, colpi di arma da fuoco, incendi, minacce, aggressioni, pestaggi. Persone prese mentre guidavano e costrette a scendere e poi riempite di botte. Ragazzine insultate per strada. Giorni di violenza smisurata, incontrollata: di giorno e di notte, da parte di singoli come di gruppi...

Gli attacchi sono stati compiuti in seguito a messaggi sui social network relativi a presunti rapimenti di bambini da parte di rom che sarebbero stati alla guida di un furgoncino bianco. Una diceria, falsa, razzista, «riportata da oltre 16 milioni di messaggi contenenti incitazioni all’odio e all’omicidio nei social network», come sottolinea l’associazione La voix des Roms. Sindaci, direttori scolastici, polizia, associazioni, media: tutti hanno risposto prontamente: «Avendo compiuto dettagliata verifica con le forze dell’ordine, nessun fatto di quelli citati nei social network risulta verificato».

Ma non è bastato per raggiungere le cerchie di persone più esposte alle dicerie e più convinte della loro veridicità. Per capire meglio come sia potuto succedere, dobbiamo guardare ai meccanismi sociali che mettono in atto ed esaltano gli stereotipi razzisti, creando le condizioni per azioni violente seriali.

Il primo non è altro che un meccanismo di 'tautologia', per usare le parole di Luc Boltanski. Il semplice fatto che qualcuno dedichi tempo ed energie ad attaccare una persona rom appare di per sé come la conferma che la vittima deve aver comunque compiuto qualcosa di sbagliato, e di grosso, altrimenti perché mai avrebbe provocato una reazione così intensa? 'Perché volete che i giovani attacchino gratuitamente delle persone in auto?'. Come a dire che se un gesto violento vien fatto contro i rom, non può che esservi una buona ragione.

La diffusione spaziale degli atti di linciaggio invece di essere interpretati dall’opinione pubblica come una forma di mimetismo di un repertorio di violenza razzista, viene invece interpretata come conferma che i rom hanno commesso atti gravi ovunque e che pertanto devono essere ritenuti responsabili.

Il secondo meccanismo è quello assai tipico di 'incolpare le vittime'. Se i rom hanno una cattiva immagine agli occhi della popolazione, sarebbe a causa del loro comportamento. Questa immagine non sarebbe un’indebita generalizzazione, né una rappresentazione simbolica che circolerebbe in assenza di prove della realtà. Al contrario, sarebbero gli stessi rom a creare questa immagine attraverso le loro azioni: piccoli furti, accattonaggio.

Il terzo meccanismo potrebbe essere definito come 'presunto realismo'. Poiché i genitori si preoccupano così tanto dei loro figli, del loro benessere e della loro sicurezza, non possono commettere errori, sbagliarsi o dire il falso. In quanto genitori, il loro discorso e le loro osservazione sarebbero affidabili, imparziali e realistici, persino quando moltiplicano allarmi e odiosi.

Infine, un meccanismo finale è tipico delle dinamiche performative delle voci che circolano nei social network. Il fatto che un messaggio non ci venga trasmesso una sola volta da un solo mittente, ma continui a esserci inviato più volte, amplificato da «camere d’eco», cioè da un gran numero di persone che conosciamo, apprezziamo e amiamo, ha un potente effetto legittimante, come ben studiato dalla politologa Caterina Froio. Una delle indagini più approfondite sull’argomento, condotta da Stefano Pasta ('Razzismi 2.0', Morcelliana) mostra come i social network favoriscono un atteggiamento superficiale, nei confronti delle conseguenze delle proprie azioni online. Siamo tutti esposti a quello che il sociologo Christopher Bail chiama «effetto margine»: l’opinione più estrema e radicale diventa la più visibile, acquisendo un senso di legittimità, e ridefinendo i contorni del campo discorsivo, spostandolo sempre più verso l’esterno, verso il margine. Laddove si celebra il comportamento violento e si spinge a imitarlo.

Sociologo, Sciences Po - Centre d’études européennes

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: