giovedì 3 marzo 2022
La mossa di Bruxelles rappresenta la rottura di un tabù, ma resta una misura con effetti di breve periodo. Ora la domanda è quali conseguenze avrà sul futuro dell’Unione
Un carrarmato ucraino nella regione di Lugansk

Un carrarmato ucraino nella regione di Lugansk - Ansa /Afp

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Quando, alla vigilia del proprio insediamento a presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen ha dichiarato che la sua sarebbe stata una «Commissione geopolitica», probabilmente intendeva limitarsi ad asserire il ruolo della Ue sulla scena internazionale. In fondo – era il 2019 – la Gran Bretagna era in procinto di abbandonare l’Unione e l’allora presidente degli Stati Uniti d’America aveva apertamente dichiarato la propria antipatia per le istituzioni europee: era quindi sensato e legittimo riconoscere la necessità di rendere più udibile nel panorama internazionale la voce (per quanto spesso cacofonica) della Ue. Ora, con la guerra tra Russia e Ucraina, la geopolitica torna a battere alle porte dell’Europa. E lo fa con violenza e urgenza inaspettata, tanto da eclissare – almeno nel dibattito pubblico – i temi che fino a pochi giorni fa erano al centro dell’agenda politica.

Comprensibilmente, i decisori politici a Bruxelles e nelle capitali europee sembrano essere consapevoli del fatto che le conseguenze di questa guerra saranno profonde, durature e particolarmente importanti per l’Europa: nel breve periodo, oltre allo sforzo diplomatico di ricercare una difficile pace concordata, si dovranno rivedere la politica di vicinato e la gestione dei flussi migratori, questioni che hanno diviso gli Stati membri e raramente hanno portato a soluzioni efficaci; ma è forse nel lungo periodo, quando – si spera il prima possibile – le armi tacceranno, che la Ue e gli Stati europei in generale dovranno ricomporre i cocci di un’architettura di sicurezza ormai andata in frantumi.

Per rispondere ai problemi di domani occorre porsi già ora alcune domande – si potrebbe dire esistenziali – sulle ambizioni dell’Europa quale promotore di pace, libertà e democrazia (princìpi e ideali, occorre ricordarlo, esplicitamente indicati nei trattati istitutivi quali fondamenta dell’Unione). Con quanta determinazione la Ue sarà disposta a impegnarsi per porre le condizioni necessarie alla pace? Fino a che punto gli Stati membri saranno in grado di superare le proprie differenze? Con quali mezzi vorranno promuovere la pace? Osservando le reazioni dei vertici istituzionali dell’Unione e di alcuni capi di governo, la sensazione è che la risposta dell’Europa alla guerra sia dettata dalle necessità di breve periodo, più che dal desiderio di rifondare i meccanismi di ordine internazionale di cui tradizionalmente la Ue è stata paladina.

L'invasione dell’Ucraina ha segnato il fallimento di anni di politica estera europea. Non tanto, come si potrebbe pensare, del tentativo diplomatico del presidente francese Macron, quanto – soprattutto – dell’approccio conciliatorio alla base della politica estera tedesca (e italiana) nei confronti del presidente Putin (approccio, è bene rilevarlo, che ha trovato ampi consensi a livello Ue). A ben vedere, sino a pochi giorni prima dell’invasione, mentre da Washington l’amministrazione Biden ammoniva del rischio di un attacco imminente, in molti in Europa speravano di poter scongiurare questa eventualità promettendo concessioni minori al leader russo. Insomma, la guerra ha minato alle fondamenta la credibilità dell’Unione come promotore della sicurezza agli occhi dei Paesi esposti all’influenza russa, inclusi quelli già membri della Ue, come gli Stati Baltici e la Polonia.

Queste considerazioni spiegano almeno in parte la premura del cancelliere Olaf Scholz nel promettere l’invio di 1.000 missili anticarro e 500 missili terra-aria alle forze ucraine (si noti, dopo che per settimane aveva bloccato l’invio di obici promessi dall’Estonia) e la rapidità con cui, letteralmente nel giro di poche ore, hanno fatto seguito altri Stati. Dal canto loro, le istituzioni europee non sono state da meno: dopo aver promosso l’imposizione di sanzioni economiche, con una decisione che il presidente della Commissione è arrivata a definire «uno spartiacque» nella storia della Ue, il Consiglio ha stabilito di finanziare l’invio di armi all’Ucraina per un valore di quasi mezzo miliardo di Euro attraverso il neo-istituito Strumento europeo per la Pace.

Queste iniziative, volte a colpire la Russia sia indirettamente – tramite le sanzioni – sia direttamente – con le armi fornite alle forze ucraine – rappresentano per antonomasia risposte di breve periodo. Se siano sufficienti a conseguire l’obiettivo preposto, ovvero porre un freno all’escalation di violenza in Ucraina, è impossibile da prevedere. Sicuramente i rischi e le controindicazioni non mancano: le sanzioni, ad esempio, stanno già imponendo un costo all’economia russa che verrà scaricato sulla società nel suo complesso; le armi, dal canto loro, potrebbero incrementare l’escalation, come ha cercato di minacciare lo stesso Putin alzando il livello di allerta nucleare. Il dubbio che sorge, tuttavia, è di altra natura: anche ammettendo che siano funzionali a conseguire un risultato nell’immediato, quali conseguenze avranno sul futuro dell’Unione stessa?

C'è motivo di ritenere che Ursula von der Leyen non abbia torto nel rimarcare l’eccezionalità delle scelte intraprese in questi giorni. Fornendo armi a uno Stato in guerra, infatti, la Ue ha rotto un tabù (parole dell’alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell); non meno importante per l’architettura delle istituzioni comunitarie, ha impegnato una cifra pari alla disponibilità annuale dello Strumento europeo per la Pace, lo strumento finanziario volto a rendere operative le missioni militari (principalmente di peacekeeping) dell’Unione.

In conclusione, per meglio comprendere la portata di queste scelte, vale la pena contestualizzarle nel quadro più ampio della politica di sicurezza e difesa della Ue. Se, come rilevato, costituiscono un salto in avanti – o nel vuoto, a seconda dei punti di vista – verso un maggiore coinvolgimento europeo nei conflitti armati, d’altro canto occorre rilevare come questa sia solo l’ultima tappa di un percorso più lungo, che ha origine alla fine degli anni Novanta del Novecento e ha visto l’Unione dotarsi di organi (l’Agenzia europea di difesa), capacità (i Battlegroups, ovvero la Forza di reazione rapida) e vere e proprie politiche degli armamenti (il Fondo europeo della difesa). Potremmo invero scorgere una regolarità in questo percorso verso l’integrazione della difesa: la Ue ha mostrato un notevole attivismo in risposta a crisi esterne, quali l’esperienza in Kosovo nel 1999, la crisi transatlantica del 2003 e il risultato della Brexit nel 2016. Fuori da questi momenti, l’interesse dei decisori politici su questi temi è stato limitato, al punto da rendere sostanzialmente nulle alcune di queste iniziative.

Se questo schema si ripeterà, l’impatto delle scelte attuali verrà presto riassorbito, la politica estera dell’Unione tornerà a essere irrilevante e i grandi interrogativi sul futuro della Ue rimarranno senza risposta. Se invece si è aperta una nuova strada, è lecito interrogare chi ha deciso di imboccarla su quali traguardi confida di raggiungere.

Politologo, Università Cattolica del Sacro Cuore

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