giovedì 11 giugno 2009
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Caro Direttore,tirava vento sabato pomeriggio, un po’ si sentiva anche da dentro l’ambulanza. Colonnina in Piazza Fontana: uno sguardo su Milano, con ragazzine che gridano e sorridono al vento, turisti in posa tra un monumento e uno scorcio, gruppi di amici in libertà e giovani coppie, che sembrano possedere ogni raggio di sole. Tirava vento e la radio suonava per una nuova chiamata, il 118 ci passa un ultimo servizio prima di tornare a casa per cena: codice verde. Mi dicono che porto fortuna in ambulanza. Nulla di grave in effetti, un piccolo trauma alla caviglia chiude la nostra diurna del sabato pomeriggio. Un sabato come tanti, tra compagni di squadra felici di indossare una divisa a servizio della loro città, dei suoi cittadini e dei suoi ospiti. Torniamo in sede, recupero la mia auto e torno a casa. Sono serena. Quasi incredula, arrivata all’incrocio sotto casa, osservo una scena tristemente nota: volanti della polizia, agenti, un Suv bloccato con segni evidenti di un urto frontale, passanti ammassati e curiosi. Il tutto sulle strisce pedonali. Una vicina mi dice: hanno investito la signora M. (sigla fittizia). Sessant’anni alla Barona, una vita come tante, fatte di piccoli sacrifici e piccole gioie. Perché nella semplicità di una periferia i sacrifici sono piccoli quando arrivano le gioie. Un’edicola sulla strada e tanti sguardi incrociati ogni mattina. La conoscevamo, perché nel nostro quartiere ancora i negozianti e la gente si incontrano, si raccontano. Guardo la scena. «Osservare la dinamica della scena» ci insegnavano al «Corso soccorritori 118»; osservarla per comprendere i potenziali danni alle persone coinvolte. Una sola auto coinvolta: il Suv. Nessun segno di frenata. Paraurti e cofano ammaccati e rientranti che mostrano i chiari segni di un urto frontale con un pedone. Urto frontale che nel caso di un Suv prende in pieno bacino e addome. Non ho visto l’incidente, ho visto il dopo. Come soccorritrice volontaria ho visto molti «dopo», che troppo spesso coincidono con una «fine». Mi scende una lacrima, ma sono in divisa e sto passando per strada. Trattengo l’urlo che mi cresce dentro, di rabbia, impotenza, rivolta. Trattengo l’urlo. Ma faccio a voi una preghiera. La vita è un’occasione unica. Ho 24 anni e nella mia Milano incontro vite distrutte da drammi, malattie, sofferenze psicologiche, violenze, dagli stessi soldi. Incontro vite anche distrutte da distrazioni, incuranza, abitudine a velocità eccessive, ignoranza di essere un potenziale pericolo per se stessi ed altri. Vite distrutte, per le vittime che muoiono sulle strisce, davanti al marito, come la signora M. Vite distrutte, anche per i responsabili che forse ignoravano che una condotta di guida distratta e un auto troppo grande potessero essere una tale arma. Non giudico. Ma trattengo l’urlo. E di nuovo mi chiedo, vi chiedo, quale senso abbia, morire così un sabato, sotto casa, a Milano.

Chiara D.

È accaduto a risolte della circolazione e la « naturale » propensione nazionale alla trasgressione, si riverberano in comportamenti incuranti delle regole più elementari, quali i limiti di velocità e il rispetto della precedenza. Se a ciò si aggiunge la cronica carenza di vigilanza sulle strade da parte delle Forze dell’ordine, il risultato non può essere altro che quello da lei così efficacemente descritto, gentile Chiara. Bisogna che le domande che ciascuno di noi si pone di fronte a questi episodi, tornino a essere questioni politiche e amministrative: i morti Milano, ma poteva succedere in qualsiasi altra città d’Italia. Forse non si sarebbe trattato di un Suv – al Nord ne circolano più che al Centro o al Sud –, ma l’esito difficilmente sarebbe stato diverso. Se in Autostrada l’introduzione massiccia del « Tutor » ha prodotto una consistente riduzione degli incidenti e, conseguentemente, delle vittime, le zone urbane restano troppo spesso una giungla. Le difficoltà mai come la « signora M. » sono un fallimento per l’amministrazione di qualsiasi città in cui si verifichino. « Vite distrutte » : parole così spesso associate che il loro significato sembra sbiadire, perdere l’impatto drammatico che il loro contenuto merita. Questo finché a essere colpita non è una « signora M. » , o un familiare, un vicino di casa, un amico. Allora le proporzioni tornano quelle brutali e dolenti del dramma vero, della perdita che lacera, lascia sbigottiti e alla quale non si riesce a rassegnarsi. Quale migliore programma, per una amministrazione locale appena insediata, della drastica riduzione di queste morti?

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