venerdì 6 maggio 2016
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Il problema della «nonna» Europa è l’Alzheimer. La cronaca di questi ultimi tempi continua a non liberarci dall’immagine della nostra vecchia Europa in preda a gravi vuoti di memoria che innalza recinti come feticci. E seppellisce nelle barriere l’antica saggezza dei suoi padri, dei suoi fondatori, i grandi ideali della propria anima, «e anche quello spirito umanistico che pure ama», come ricordava papa Francesco nel discorso a Strasburgo. Sono passati due anni da allora, e stamane il Papa riceverà dalle massime autorità europee il premio Carlo Magno. Sono passati due anni da quando usò l’appellativo di «nonna» per descrivere al Parlamento europeo il tracciato di un’Europa ripiegata e avvitata su se stessa. E oggi è ancora il "sì" a un’altra, e vera, Europa di un "vescovo di frontiera" a risuonare come un’obiezione di coscienza. Quando la direzione della polizia di Stato ha deciso di installare su terreni della sua diocesi un tratto della recinzione che deve dividere l’Austria dall’Ungheria, Ägidius Zsifkovics, il vescovo austriaco di Eisenstadt, non ha esitato: «E ora dovremmo innalzare steccati anche sui terreni della Chiesa? È il mio corpo stesso che si ribella. Con ogni fibra del mio corpo non posso accettare che si possano costruire ancora muri». È la repulsione di un uomo nato vicino alla frontiera con l’Ungheria, cresciuto nell’Europa divisa dalla cortina di ferro e che ha sperimentato «tutte le umiliazioni di una zona di confine», sempre con il desiderio di un’altra vita. È la voce di uomo che non ha perso la memoria civile né ha abiurato quella cristiana: «Ho sempre ricordato che la Sacra Famiglia è stata una famiglia di rifugiati, e chi pensa altrimenti non rappresenta il Vangelo». Di recinti di costrizione è piena la nostra memoria. Come ne Il cielo diviso di Christa Wolf, che riflette il dramma di chi è vissuto nella Germania degli anni Sessanta del Novecento all’ombra di quella linea che tagliava a metà i destini di un continente. Così ne Il Muro di Jean-Paul Sartre, che altro non è se non la superficie verticale davanti alla quale verrà eseguita la condanna di chi si trova a dover vivere la morte. «Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata», scriveva Elie Wiesel ne La notte dal campo di sterminio di Auschwitz. Il filo della memoria non è strappato da chi ricorda, al presente, anche come tutti i muri hanno avuto epilogo. A cominciare dal limes, le fortificazioni erette dagli antichi romani a difesa dei confini nel tardo impero. «I muri, tutti, tutti i muri crollano, oggi, domani o dopo cento anni, ma crolleranno. Il muro non è una soluzione. I muri, non sono mai soluzioni», è stata la chiosa di Francesco al ritorno dal viaggio a Cuba e negli Stati Uniti. Farne memoria è indispensabile. Per non ricadere negli errori passati. Così la memoria è ancora risorsa da cui attingere per una prospettiva europea che guarda al futuro, con la consapevolezza culturale di tremila anni di pensieri e di storia che ci viene dai classici. Filoxenìa è parola greca antichissima che significa «ospitalità», è un fondamento della nostra civiltà da Omero a oggi. Filoxenìa significa accoglienza, rispetto, attenzione, amicizia, ruota attorno all’altro, a chi è straniero, fuggitivo da tutto ciò che era, esule dalla sua terra. E ci ricorda che l’accoglienza non è una melassa buonista o uno scrupolo dei cristiani. Filoxenìa è questione di città, di polis, di integrazione e di democrazia. È il fondamento dell’universalità che ci costituisce. L’Occidente, in particolare l’Europa, anche con le sue crisi, se non vuol perdere se stessa non può venir meno alla sua storia e ai suoi paradigmi culturali profondi. A quelli migliori, per allontanare quelli peggiori.Per sapere cosa fare in questo tempo di migranti e di nuovi poveri le risposte sono certo impegnative, ma da duemilacinquecento anni le abbiamo, noi cittadini d’Europa. Basta rileggere Le Supplici di Eschilo. Tutti gli elementi sono tracciati per la nostra polis. C’è tutto già in Omero, nell’Odisseo errante, naufrago, mendico che ognuno di noi conosce e sa riconoscere nei nostri giorni. Per un’Europa disorientata, smemorata, il problema epocale dei migranti è un’opportunità per ritornare a pensare, per comprendere chi è e cosa vogliamo sia questa Europa: è una questione di comune responsabilità, di civitas, di tutti i cittadini, non solo dei politici. È questione di apporto pratico per rigenerare una nuova cooperazione, per l’agathòn koinón, il bene comune, dovere dell’ora che batte all’orologio della storia.
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