sabato 12 aprile 2014
​Riflessioni a margine del salone del mobile a Milano. Per costruire il nuovo servono tempi lunghi e ideali
di Mario A. Maggioni e Simona Beretta
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​Mentre il Salone del Mobile si svolge nei padiglioni del complesso fieristico di Rho-Fiera (l’anno scorso 285.698 visitatori di cui 193.024 esteri, a cui si aggiungono le oltre 38.000 presenze di pubblico nel weekend e i 6.578 operatori della comunicazione) in città si moltiplicano le iniziative del cosiddetto "fuori-Salone". Le aree intorno a via Tortona, ma anche la zona Brera e finanche la più periferica, ma non per questo meno chic, zona Lambrate, sono in questi giorni sottoposte ad uno choc logistico che mette a dura prova la pazienza dei residenti. In compenso, si respira, sia pure per pochi giorni, un clima euforico da "Milano da bere" dentro una congiuntura di crisi e, per almeno due fra le tre aree urbane citate, in una fase non ancora superata di de-industrializzazione.Difficile non guardare al presente pensando ad un passato che non c’è più: negli anni 60 il reddito di Milano proveniva in gran parte dalle manifatture (anche pesanti) localizzate dentro il contesto urbano – basti pensare all’Ansaldo, alla Richard Ginori; alla Osram e alla Riva Calzoni per citare solo la zona Tortona. Oggi la città, nella sua realtà ma ancora di più nella sua rappresentazione ideologica – dall’urbanistica delle archistar a certa sociologia urbana – si affida ad un "nuovo" terziario (che corrisponde alle professioni creative) per trovare una propria identità. Le conseguenze sulla dinamica delle attività produttive non lascia dubbi; anzi, è paradossalmente il settore "legno e mobili" a registrare la contrazione più marcata di produzione e di fatturato.

 

La grande trasformazione di oggi non è dunque segnata da un cambiamento strutturale dal manifatturiero al "terziario di servizio all’impresa" che aveva fatto ricca Milano negli ultimi decenni del ventesimo secolo (finanza, import-export, logistica, assicurazioni), ma dal passaggio dalla attività di  produzione "completa" di un bene o di un servizio (la sua concezione, la sua realizzazione, la sua vendita) ad una attività che si concentra quasi esclusivamente sulle fasi estreme: a monte (progettazione e design), quando va bene; oppure a valle (pura commercializzazione). La fase a monte implica l’attivazione di capitale umano qualificato e di competenze creative, ed è associata alla generazione di valore aggiunto economico, sia pure per i pochi addetti dei settori emergenti (i dati europei indicano che le professioni specificamente creative raggiungono appena il 2% della forza di lavoro). Al contrario, è evidente che la pura attività di commercializzazione genera un valore che dipende dalla capacità di spesa dei consumatori. Ma i grandi mercati di sbocco e i grandi consumatori non sono certo locali! Così, Milano potrebbe diventare sempre più una specie di "parco tematico" dello shopping, con poche ricadute per la maggior parte della città al di fuori delle location più prestigiose; un po’ come Venezia, che rischia di essere ridotta a un pittoresco "paesaggio turistico" per gente di passaggio. Non si tratta di guardare indietro con nostalgia, ma di domandarsi seriamente che storie di lavoro "inclusive" e non "esclusive" potranno essere narrate a Milano. Una nota di costume dice più di lunghi discorsi: nei giorni del "salone" e soprattutto dei "fuori salone" ci si imbatte in una folla di individui dall’abbigliamento particolare, che include occhiali dalle vistose montature in plastica e scarpe rigorosamente portate senza calze. Se questo farà tendenza… non ci dovremo certo stupire del collasso di distretti industriali già in difficoltà (Castelgoffredo e le sue calze), mentre sarà di scarsa consolazione sapere che le montature colorate sono sì disegnate nel bellunese, ma realizzate chissà dove.Più seriamente, se parliamo di storie di lavoro, dobbiamo parlare concretamente di tempo e di spazio. La condivisione di questi due elementi costituisce il contesto dove possono accadere relazioni stabili, di cui le città sono la forma storica più evidente. Se un tempo il lavoro tendeva a condividere tempo e spazio (la casa, la fabbrica…), il modello che si affaccia sembra invece dominato da interazioni occasionali: creativi che si aggregano sulla base di progetti temporanei da un lato, consumatori cosmopoliti che entrano e escono dai negozi del "quadrilatero", dove parlano i brand e non le persone.
Ma siamo sicuri allora che parlare di una creative class per descrivere il presente e il futuro produttivo di una città come Milano abbia senso? Cosa si intenda per "creativo" può essere discusso, ma di sicuro non ci troviamo di fronte ad una "classe", ma ad un aggregato composito di individui in cui la struttura dei rapporti orizzontali è caratterizzata dalla estrema competizione, se non addirittura dall’opportunismo; e i rapporti verticali scaricano il rischio di impresa sui livelli più bassi della catena creativa: l’instabilità della domanda diventa precarietà delle posizioni lavorative dei più giovani. La vicinanza spaziale di una attività economica può essere dovuta alle ragioni più varie; nel caso delle professioni creative, l’interazione produttiva è molto limitata e ci si mette vicini per facilitare gli spostamenti dei clienti potenziali che fanno comparative shopping. Dunque, a ciascun creativo conviene stare nelle zone in cui si concentrano anche i suoi concorrenti; ma gli interessi di ciascuno saranno per definizione contrapposti agli interessi dei suoi vicini: la mia vetrina (di negozio, o di laboratorio creativo) dovrà essere sempre più scintillante di quella degli altri. Così non si costruisce una storia comune. Vicini, dunque, ma non fratelli…Anche nella attività economica, invece, «il tempo è superiore allo spazio»: lo sviluppo duraturo di un quartiere è un processo di lungo termine, non ossessionato dai risultati immediati. Apprendisti da far crescere e non stagisti da spremere finché conviene; un luogo che si impara ad amare, e non una location che si sceglie perché "piace alla gente che piace". In questo tempo lungo, in questo spazio amato si possono scoprire le mille ragioni per cooperare con l’altro e costruire qualcosa per tutti.  Smettiamolo di auto-convincerci che la creatività sia il frutto casuale di isolati individui geniali. Un genio isolato fa una singola, grande cosa. Per costruire una città occorre un popolo che si muova per un ideale.*Università Cattolica del Sacro Cuore
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