sabato 15 febbraio 2014
Molti giovani studiano negli Usa. E poi tornano a casa.
di Luca Miele
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Volete capire la Cina del futuro? Guardate cosa fanno (e dove vanno) i suoi studenti. Ebbene la "scena" è dominata da due grandi dinamiche. I giovani cinesi scelgono, sempre più, di studiare all’estero. Ma, a differenza di quanto accadeva anni fa, dopo aver completato la propria formazione all’estero, i cervelli asiatici ritornano a casa. Un doppio esodo intellettuale – impossibile anche solo da immaginare quando in Cina imperava ancora la Rivoluzione culturale – che testimonia un quadro estremamente dinamico. Da un lato, Pechino si gioca la sua partita per la leadership mondiale, investendo in cultura, formazione e ricerca. Dall’altro, le giovani generazioni, dopo aver assorbito idee e stili di vita occidentali, spingono per ritagliarsi un ruolo nuovo, dinamico, propulsivo, nella società cinese del futuro. Iniettando nelle vene del gigante asiatico la voglia di cambiamento.
Il fenomeno è imponente. Nel 2007 erano 140.000 in totale gli studenti cinesi che avevano fatto le valigie. Nel 2012 la cifra è schizzata in alto, raggiungendo quota 400mila. E la meta che continua ad attrarre di più sono gli Stati Uniti, seguiti da Australia e Inghilterra. Secondo i dati riportati dal China Daily, durante l’anno accademico 2012/13, le iscrizioni di studenti cinesi negli States sono aumentate del 21,4 per cento, toccando il numero di 235.597 presenze. L’anno precedente erano 194.029. Una crescita esponenziale: nel 2000 i "cervelli" con un biglietto in mano per gli Usa erano 60mila. Nel complesso, gli Stati Uniti come attesta il rapporto Open Doors dell’Institute of International Education (IIE), si confermano la nazione più cosmopolita in termini di educazione. A dispetto della crisi, la forza attrattiva del gigante americano è tutt’altro che esaurita. Il numero di studenti internazionali, anno accademico 2012/13, è aumentato del 7,2 per cento toccando quota 819.644, 55.000 presenze in più rispetto ai dodici mesi precedenti. Indovinate chi fa la parte da leone? La Cina, con il 28,7 per cento del totale (più 26 per cento), seguita da India e Corea del Sud. Insieme le tre nazioni asiatiche rappresentano oggi il 49 per cento del totale degli studenti internazionali negli Stati Uniti, ma solo la Cina continua a crescere in termini di presenze. Come è composto l’esercito degli studenti con gli occhi a mandorla? Il 39,8 per cento sono universitari, mentre il 43,9 per cento invece è già laureato. Per le università americane si tratta di un boccone sempre prelibato. Per un motivo molto semplice: sono sempre più numerosi i cinesi che possono permettersi di sborsare almeno 40mila dollari l’anno per frequentare i college a stelle e strisce. Tanto che, tra gli Atenei Usa è partita la corsa per assicurarsene il maggior numero. Una presenza che fa bene all’economia americana: gli studenti stranieri hanno contribuito, lo scorso anno, per circa 24 miliardi di dollari attraverso, principalmente, il pagamento delle tasse scolastiche e delle spese per il vitto e l’alloggio.
Ma la grande novità è questa: la popolazione studentesca cinese decide poi di tornare a casa. A partire dall’inizio del processo di riforme, anno 1978, sono "emigrati" circa 2 milioni e 640 mila studenti. Di questi, un milione e 90 mila sono rientrati in patria (a differenza di quello che accade per molti giovani di altri Paesi). Nel 2012, il 70% di coloro che avevano terminato i propri studi oltre oceano hanno compiuto il percorso inverso, all’incirca 273mila giovani, il 50% in più rispetto al 2011. Un contro esodo sul quale hanno investono le stesse autorità cinesi, come dimostra il decennale China’s National Talent Plan (2010-2020). Che non mira soltanto a far rientrare i cervelli, ma a riorientare lo stesso sviluppo del sistema Cina: da fabbrica del mondo a fucina di idee in termini di innovazione, scientifica e tecnologica. Dal «Made in China» al «Created in Cina», insomma. D’altronde, molti dei talenti, una volta rientrati, finiscono con l’entrare nell’establishment accademico del gigante asiatico. Le statistiche del ministero della Pubblica istruzione cinese mostrano che il 78 per cento dei presidi, il 63 per cento dei supervisori, il 72 per cento dei direttori dei principali laboratori sono studenti che hanno completato la loro formazione all’estero. Circa l’ottanta per cento dei membri dell’Accademia Cinese delle Scienze e il 54 per cento dei membri dell’Accademia cinese di Ingegneria hanno studiato fuori dai confini.
Come segnalato dal rapporto China 2030 della Banca Mondiale, anche grazie all’apporto dei "cervelli" rientrati, la qualità delle università cinesi sta migliorando rapidamente. Nella classifica dei primi 500 atenei al mondo, soltanto cinque Paesi vantano più presenze rispetto a Pechino, che ne "schiera" 22, otto anni fa erano 12. Entro il 2030, la Cina dovrebbe, poi, avere fino a 200 milioni di laureati. Un vero esercito della conoscenza. Che rappresenta una grande opportunità per il futuro del Paese, ma che nasconde al tempo stesso anche un rischio: quello della disoccupazione intellettuale. Se il fenomeno della crescita della classe media cinese continuerà a ritmi galoppanti, così come l’aumento della ricchezza nazionale e il miglioramento degli stili di vita, proprio i laureati potrebbero guadagnarsi un ruolo sempre più importante. «Questi studenti – ha scritto Hassan Siddiq su YaleGlobal – hanno in mano la chiave per trasformare la Cina». Riusciranno a bucare la gabbia di ferro con cui il Partito comunista ha ingessato la società cinese? Riusciranno a coniugare innovazione e conoscenza con diritti e progresso sociale?
Le difficoltà non mancano di certo. Come ha scritto Nunziante Mastrolia, analista del Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS) del ministero della Difesa, «i giovani laureati che hanno vissuto nell’"aria libera" dei campus americani ed europei, ritornano in una Cina dove la libertà di stampa è quasi inesistente e la libertà di parola è assai pericolosa». Deludere le loro aspettative, potrebbe essere persino pericolo se si tiene presente, scrive ancora Mastrolia, «che la storia della Cina contemporanea è anche il prodotto delle esplosioni causate da una élite di intellettuali déclassé che ha incendiato il malessere delle masse».
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