giovedì 1 marzo 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
C’è stato un periodo – durante la breve, illusoria stagione dei riformisti – in cui il mondo guardava con interesse e speranza alle elezioni parlamentari iraniane. Un periodo ormai svanito da molti anni: le elezioni di domani per il rinnovo del Majles sono ridotte a una lotta di potere fra i conservatori tradizionali che si riconoscono nel leader supremo, ayatollah Khamenei, e i nuovi conservatori vicini al presidente Ahmadinejad. Lo scarso interesse dell’appuntamento stride violentemente con l’attenzione ossessiva verso il programma nucleare iraniano, al centro di un confronto internazionale che rischia di sfociare in un nuovo devastante conflitto in Medio Oriente. A interessare ai governi occidentali non è tanto chi prevarrà fra le contrapposte fazioni di conservatori, ma piuttosto la percentuale dei votanti, essendo l’astensione l’unica arma rimasta ai riformisti. Non a caso il regime sta accentuando le sue pressioni – trucchi compresi – per portare alle urne il maggior numero di votanti possibile. Il non voto – vien detto – minaccia la sicurezza nazionale. Un patetico tentativo di spingere a votare una popolazione contro la quale in questi anni entrambe le fazioni si sono accanite con brutalità e che guarda molto di più ai prezzi sempre più alti di cibo e energia, o al numero crescente di disoccupati, che ai triti slogan del regime. In ogni caso, quale che sia il risultato elettorale di domani, è vano aspettarsi grandi cambiamenti nella politica estera e di sicurezza iraniana. Il file più scottante – quello sul nucleare – è nelle mani di Khamenei. Solo lui può decidere se accettare o meno un compromesso con l’Occidente. Ahmadinejad in passato era favorevole a un accordo, ma è stato sconfessato. Di certo non sarà un Majles debole e privo di vera rappresentanza che oserà dissentire dal leader. Parimenti, sulle sanzioni economiche e sulla politica estera, i parlamentari iraniani in passato si sono distinti solo per aver votato mozioni tanto roboanti quanto inutili: nell’intricato sistema di potere della repubblica islamica, le leve decisionali stanno ben lontane dall’aula parlamentare. Non saranno quindi le decisioni del Majles a evitare un bombardamento americano o israeliano dei siti nucleari iraniani né a spezzare la rete sempre più stretta delle sanzioni. La triste verità per l’Iran è che lo scenario geopolitico regionale sta fagocitando ogni altra questione: isolato internazionalmente e sfidato dalle politiche anti-sciite dei paesi arabi del Golfo; inchiodato al sostegno a un declinante sanguinario regime come quello siriano, alleato irrinunciabile per Teheran; alle prese con una crisi economica aggravata dalle sanzioni internazionali; sotto minaccia di un attacco militare. Dinanzi a questo scenario, la lotta interna ai conservatori sembra una tempesta in una tazza di tè, com’è stato detto. Eppure, per chi ricorda la partecipazione attiva delle donne, degli uomini e dei giovani iraniani alle elezioni del periodo riformista, questa parodia di democrazia rivela la debolezza del regime e la sua miopia. Il regime è oggi sostanzialmente e tristemente solo: chi è al suo fianco, tanto all’interno quanto all’esterno dell’Iran, lo fa più per timore – della repressione in casa o delle ritorsioni nella regione – o per guadagno, che per reale convinzione. Una situazione paradossale, visto il nazionalismo viscerale che accomuna tutti gli iraniani. Aver chiuso ogni porta alle riforme e al desiderio di libertà priva la repubblica islamica dell’arma più potente di cui si è sempre vantata: la passione e la determinazione della propria popolazione, sentimenti decisivi per abbattere lo shah nel 1978 e per resistere all’invasione di Saddam Hussein nel 1980. Soffocata la passione, rimane solo il trito rituale di un regime diviso e tetragono nel rifiutare ogni ragionevole compromesso.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: