mercoledì 24 agosto 2011
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Continua la battaglia per Tripoli e si fa più pressante l’esigenza di capire come sarà la Libia del dopo–Gheddafi. Il popolo libico ha molto sofferto e, in questi ultimi mesi, ha mostrato una determinazione nel combattere frutto di una situazione insostenibile. Quarantadue anni di potere del Colonnello hanno forgiato al cospetto del mondo una Libia a immagine del capo assoluto, coprendo o quasi le grandi differenze presenti nel vasto, poco popolato, ma articolato Paese nordafricano. Per quasi mezzo secolo, la politica internazionale ha fatto i conti in Libia con un solo uomo (e con il suo clan). Era una semplificazione, forse necessaria. Infatti le nostre conoscenze sulla realtà libica sono ridotte anche a livello di studi. Se l’Italia prefascista aveva investito risorse sulla conoscenza di questo Paese, oggi dobbiamo capire meglio che cos’è la Libia e chi sono i libici, a lungo compressi ma non annullati dalla dittatura del Colonnello. La realtà è molto più variegata e addirittura divisa di come siamo abituati a immaginarla.Innanzitutto, d’ora in poi la Libia non sarà più vista soltanto da Tripoli. Da qualche mese Benghasi, sede del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), è riemersa come un polo decisivo. Ma non tutto si spiega con la bipolarità tra Tripoli e Benghasi. Non è un caso che la maggioranza dei trenta membri del Cnt siano rappresentanti delle diverse realtà cittadine libiche. Si è parlato anche di una Libia tutta fatta di tribù: i legami clanici sono importanti, ma non spiegano tutto (la vita cittadina ha dato una nuova dimensione, come mostra anche l’impennata dei collegamenti internet dopo la liberalizzazione). È emersa anche in questi ultimi mesi una realtà islamica che non si identifica con le teorie del libretto verde gheddafiano e le sue giravolte opportuniste sul tema religioso. In Libia esiste un islam che si riconosce nella linea dei Fratelli musulmani, la cui dirigenza è in esilio e ha avuto contatti con l’Occidente e dunque sembra meno fondamentalista. Ci sono poi musulmani praticanti, come il presidente del Cnt, Abdel Jalil, giurista, laureatosi in legislazione islamica, che crede al dialogo politico e a quello interreligioso. Inoltre esiste la tradizione delle confraternite musulmane, nerbo per secoli dell’islam della regione. Un nome per tutte, quello della Senussya, che fu l’anima della resistenza agli italiani. D’altra parte molti esponenti dell’opposizione si definiscono semplicemente laici. Come si vede, il mondo libico è complesso e merita molta attenzione.La Libia del dopo–Gheddafi non è, e non sarà, tutta uguale. Il primo sforzo da fare da parte dei libici e della comunità internazionale è quello per mantenere l’integrità del territorio e l’unità politica. Deve perciò iniziare un processo di costruzione di nuove istituzioni politiche, giuridiche e economiche che esprimano la  nuova identità nazionale, raccogliendo le diverse componenti della società: clan, tribù, città,  militari lealisti e oppositori, borghesia, esuli, rappresentanti del territorio rimasti fuori dal conflitto, le varie anime religiose… Insomma, dopo i bombardamenti Nato e i tanti tentativi di mediazione internazionale, s’inizia un tempo difficile, quello della costruzione del nuovo Stato libico. È necessario lavorare da subito per riempiere i vuoti lasciati dalla fine del regime, sopratutto in Tripolitania. In politica – si sa – il vuoto non esiste e, se non si riempie subito, si lascia spazio a presenze e infiltrazioni che potrebbero non portare all’agognata democrazia.È noto che la Libia è stata per anni al centro di non chiari intrecci internazionali soprattutto sul suo versante meridionale e desertico. Povera di esperienza politica e di istituzioni democratiche, la Libia è un Paese che amministra un notevole patrimonio di risorse energetiche. La nuova classe dirigente ha a disposizione subito molte ricchezze e questo potrebbe non essere un vantaggio. La priorità è costruire la democrazia, non spartire benefici. D’altra parte anche l’Occidente rischia di guardare solo agli interessi petroliferi. Sarebbe un errore non sostenere la domanda di libertà del popolo libico, ma anche lasciare una Libia non democratica e incerta e quindi fattore di instabilità nel già “caldo” Mediterraneo.
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