lunedì 3 ottobre 2011
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«Grazie perché ci avete ridato la gioia della fede, la gioia di credere». Sono le parole con cui gli abitanti di Madrid salutavano i giovani di tutto il mondo durante la Giornata della gioventù, in agosto. Un grido che nasceva non dalla perfezione con cui venivano trasmessi chissà quali contenuti ma dall’incontro di chi aveva fatto migliaia di chilometri con quanti avevano aperto la propria casa. Azioni entrambe coraggiose per la distanza che oggi, più che mai, ci separa dall’altro. Ma forse la strada più lunga l’hanno fatta loro, i giovani. Mossi dai più diversi impulsi, certo, capaci però di cambiamento vero quando, davanti a ciò che vivevano e vedevano accadere, le domande sul senso arrivavano dritte all’essenziale e i perché che salivano dal cuore imitavano il vento d’autunno quando pulisce gli alberi dalle foglie secche. Senza toccare le radici, che a primavera riempiranno ancora di verdi speranze tutta la pianta. In questo ottobre la Chiesa, provocata come ogni anno dalla celebrazione della Giornata mondiale (domenica 23), si ritrova a vivere il suo «mese missionario». Un’iniziativa tradizionale e consolidata, ma anche – teme più d’uno – forse un po’ stanca, opacizzata dalla routine, o dalla insufficiente vitalità missionaria di tante comunità. Può la Chiesa essere affaticata nel compiere ciò che la rende bella e preziosa? È dalla missione che essa nasce e rinasce continuamente, lo sappiamo bene. La missione non è l’impegno che ci assumiamo quando decidiamo, da adulti, che cosa fare della vita, né lo slancio del battezzato perfetto, ma l’oggi della vita ordinaria. È nella missione che la fede cresce e si purifica. È nella missione che comprendo il valore profondo del dialogo con la diversità come unica via perché Dio faccia breccia nella vita dell’uomo e appaia a tutti come Padre. Forse giustifichiamo la nostra poca ansia missionaria con il fatto che oggi l’altro lo troviamo sotto casa nostra: perché andare, allora? Sono sempre più convinto che le nostre parrocchie abbiano bisogno dei giovani per ritrovare il loro slancio missionario. Prima di tutto perché per primi essi si sentono attraversati dall’inquietudine di questo nostro tempo. La Gmg di Madrid ci ha offerto nuovamente lo spettacolo di una fede giovanile aperta, che non ha paura del confronto e non vive alcun complesso di inferiorità davanti ad altri modelli di vita. I giovani non si difendono chiudendosi nel loro gruppetto ma rispondono alle provocazioni con le domande, con il silenzio, con l’adorazione. Sempre guardandoti negli occhi. Sono loro che oggi possono insegnare alle nostre parrocchie a non abbandonare il coraggio del primo passo e a rilanciare davanti a ogni sconfitta. Qualcuno dice che sono fragili. Per quel che mi riguarda, seguendoli da vicino ormai da tempo, ho visto che messi davanti alla crudezza della vita tirano fuori doti impensabili. Non sarà, forse, che oggi i giovani si trovano a vivere stretti nella morsa di una società che li ubriaca e li rende dipendenti da bisogni indotti e superflui e di una comunità ecclesiale che spesso continua a trattarli come bambini senza responsabilità? La missione è giovane perché osa strade nuove, perché non si arrocca in paludamenti e abitudini ma avvicina mondi distanti quanto il cielo e la terra.Perché la missione torni a far correre la nave della Chiesa con il vento dei giovani bisogna sciogliere le vele anche quando la barca ci sembra ancora non perfettamente costruita. Ciò che incontreremo nella navigazione non saranno domande scritte a tavolino ma la necessità di ogni uomo di avere qualcuno che incroci il suo sguardo, e si prenda cura di lui.
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