Il trionfo zoppo dello zar, ora deciso a regnare a vita
domenica 28 giugno 2020

A oltre vent’anni da quel folgorante changeover in cui la notte del 31 dicembre 1999 l’estenuato Boris Eltsin cedeva il comando e assegnava a un semisconosciuto apparatcik di Leningrado di nome Vladimir Vladimirovic Putin la carica di presidente della Federazione Russa, per il 'nuovo zar' si prospetta ora un teatrale raddoppio grazie alla possibilità di ricandidarsi nel 2024 e ricominciare la conta da zero ricoprendo due nuovi mandati. Il che gli consentirà di guidare la Federazione fino al 2036 perpetuando il proprio potere attraverso una studiata galleria di intercambiabili avatar – su tutti il futuro Consiglio di Stato.

Ma dietro la cortina di velluto della grande cosmesi istituzionale che il referendum che Putin ha indetto per rimodellare la Costituzione sta convalidando proprio in queste ore, c’è una vigorosa riscrittura della memoria collettiva russo-sovietica grazie al cruciale sodalizio fra nazionalismo, politica e religione. Due innocui ma significativi esempi ci soccorrono. Il primo lo troviamo in Siberia, a Irkutsk. Una pittura murale nella chiesa di Nostra Signora di Kazan rappresenta l’eccidio dei Romanov a Ekaterinburg, quando nell’estate del 1918 lo zar Nicola II e la sua intera famiglia caddero sotto i colpi dei bolscevichi. La morfologia dell’iconostasi è similissima a quello di Los fusilamientos del tres de mayo di Goya, ma l’orrore, il sangue e l’odio che trapela dalla scena del pittore aragonese si muta nel capoluogo siberiano in una devota celebrazione del martirio: un plotone di tre uomini incappucciati punta i fucili verso la famiglia dello zar, raccolta in preghiera in attesa della scarica fatale, i capi di ciascuno – Nicola, la consorte Alexandra Fëdorovna, il figlio Aleksej – circonfusi di un’aureola luminosa. Ai tempi di Lenin e poi di Stalin i Romanov erano bollati dalla cultura del Soviet come «una banda di vigliacchi e di lupi sanguinari». Oggi i Romanov si sono trasformati in una sorta di reliquia storica e le loro immagini in un ex voto che i devoti possono onorare.

Il secondo esempio, forse ancor più calzante, si trova a Kubinka, a sessanta chilometri da Mosca e sempre in una chiesa, ribattezzata 'Cattedrale delle Forze Armate', che in molti considerano la «Disneyland militare russa». Inaugurato nel 2016, il tempio - che peraltro ha fatto storcere il naso alla gerarchia ortodossa – è ridondante di simboli e cabalismi riferibili all’Armata Rossa e alla 'Grande guerra patriottica', come i russi chiamano (non senza ragione) la Seconda guerra mondiale: dal campanile alto 75 metri (come i 75 anni dalla fine della guerra) al mosaico che rappresenta l’annessione della Crimea da parte di Putin, fino agli altari modellati con il metallo fuso dei carri armati della Wehrmacht.

È il culto della vittoria – c’è perfino un canale televisivo, 'Pobeda', che si chiama così – che Putin sta diligentemente ripristinando, non senza aver cura di stringere il laccio che avvolge e protegge il passato sovietico: fra i capitolati del rammendo costituzionale sottoposto a referendum c’è quello del vilipendio alla memoria patria, in buona sostanza un calco del bando assoluto alla turca di Medz Yeghern, l’impronunciabile Grande Crimine che osa ricordare il genocidio degli armeni, che pure è e resta macchia atroce sulla fine dell’Impero ottomano e sulla genesi della Turchia moderna.

Alludere alla nuova Costituzione russa come un espediente a beneficio esclusivo del presidente sarebbe tuttavia fuorviante. Nella visione dello zar Putin c’è sicuramente quella di una nazione in cui «valori quali il sacrificio, il patriottismo, cioè l’amore per la casa, la famiglia e la Patria – così twittava Putin qualche giorno fa a corredo di un’intervista pubblicata sulla rivista conservatrice americana 'National Interest' –, rimangono ancora oggi fondamentali e parte integrante della società russa. Valori che sono in larga misura la struttura portante della sovranità del nostro Paese». È una rivoluzione, questa volta di stampo copernicano, che poggia su emendamenti che sovvertono l’ateismo di Stato che per settant’anni aveva dominato l’Unione Sovietica. Come quello che definisce il matrimonio come «l’unione fra un uomo e una donna» bocciando implicitamente le nozze gay, o quello che ufficializza la lingua russa come «lingua del popolo» o ancora quello che sacralizza «la memoria degli antenati che ci hanno trasmesso ideali e fede in Dio».

Non per nulla Putin considera la caduta dell’Urss come «una catastrofe mondiale» e - con più discrezione quella degli zar come l’epoca d’oro della Madre Russia. E pazienza se oggi la crescita economica, i salari più che decorosi, la corsa al benessere, la svagata amnesia delle nuove generazioni, ovvero – in due parole – la durevole Belle Époque putiniana è stata azzoppata dalle sanzioni, dal crollo dei prezzi degli idrocarburi, dalla protesta diffusa e da ultimo dal coronavirus: la desinformatija– di cui Mosca è maestra – aggiusta molte cose. Perfino una Costituzione.

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