martedì 14 marzo 2017
Petrolio e una nuova immagine. Ecco i motivi della missione in Asia del sovrano saudita
Salman bin Abdulaziz Al Saud è re dell'Arabia Saudita dal gennaio 2015 (Ansa)

Salman bin Abdulaziz Al Saud è re dell'Arabia Saudita dal gennaio 2015 (Ansa)

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Circa 1.500 persone al seguito (tra cui 25 principi e 10 ministri) e 460 tonnellate di bagagli trasportati in sette aerei: il tour asiatico di re Salman fra Asia e Pacifico è iniziato lo scorso 26 febbraio e durerà tre settimane. L’81enne sovrano dell’Arabia Saudita, sul trono dal 2015, viaggia molto raramente. Dopo Malesia, Brunei e Indonesia, il sovrano si trova ora in Giappone e si recherà in Cina, Maldive e Giordania. Il viaggio si è già tinto di giallo: la polizia malese, a visita conclusa, ha dichiarato di aver arrestato in febbraio sette persone, tra cui quattro yemeniti, per reati legati a terrorismo e droga: il gruppo pianificava un attentato contro il re saudita. Perché un viaggio così impegnativo e mediatico proprio ora? Per Riyadh, il viaggio di re Salman ha tre obiettivi: energia e investimenti, alleanze geopolitiche e militari, primato saudita nel mondo islamico. Da tempo, le potenze dell’Asia, grandi consumatrici di energia, sono le prime importatrici di petrolio dall’Arabia Saudita. Prima che Barack Obama praticasse il 'pivot to Asia', trasformando l’Asia-Pacifico nel perno della sua politica estera (una strategia ora picconata da Donald Trump), sono state però le monarchie del Golfo a stringere forti legami economici ed energetici con Cina e Giappone. Perché complici la globalizzazione, la crisi finanziaria internazionale e l’isolazionismo degli Stati Uniti, il pendolo dell’economia mondiale si è spostato sempre più a Oriente.

In Malesia, re Salman ha siglato un accordo da 7 miliardi di dollari fra Saudi Aramco (la compagnia petrolifera nazionale) e l’omologa Petronas, per lo sviluppo del complesso petrolifero malese di Johor, così come un accordo da 6 miliardi di dollari con l’omologa indonesiana Pertamina. Si è poi discusso della quotazione in borsa, prevista nel 2018, del 5% di Saudi Aramco, che di per sé è già una rivoluzione, ma che rientra nel progetto saudita di diversificazione economica, 'Vision 2030': puntare sull’economia non-oil (cioè non legata agli idrocarburi) per rendere lo stato sostenibile e non più dipendente dal petrolio nel lungo-periodo. Per Riyadh, l’Asia è innanzitutto un mercato per l’export non petrolifero, come petrolchimico e plastico: l’obiettivo, per esempio della rimozione delle barriere commerciali fra Arabia e Indonesia (paese di 250 milioni di abitanti), è rafforzare il settore privato saudita, favorendo il trasferimento di competenze tecniche. Un’operazione ambiziosa e insieme rischiosa per le possibili ricadute politiche: il regista è Mohammed bin Salman, il 31enne figlio del re e suo aspirante successore. Insieme all’alleanza con il clero wahhabita più rigorista, la redistribuzione della rendita petrolifera, sotto forma di welfare e sussidi, è infatti l’architrave di quel rapporto fra monarchia e popolo che dal 1932 garantisce la stabilità del regno degli Al-Saud: un patto basato sull’assenza di tassazione diretta a fronte di libertà politiche assai limitate.

Il viaggio di re Salman in Asia ha anche obiettivi geopolitici e militari. L’Arabia Saudita prosegue la strada della differenziazione delle alleanze internazionali. D’altronde, l’Amministrazione Trump, sebbene abbia alzato i toni contro l’Iran, il grande rivale dei sauditi, non ha ancora formulato una politica mediorientale coerente. E la Russia, con la quale Riyadh ha intensificato i rapporti negli ultimi anni della presidenza Obama, è ormai troppo vicina a Teheran nello scacchiere siriano. Dunque, si cercano appoggi a Oriente. In tema di cooperazione militare, Arabia Saudita e Malesia hanno firmato un accordo per addestramento ed esercitazioni militari congiunte (nel 2014 i sauditi strinsero già un patto di cooperazione per la difesa con l’Indonesia). La 'Coalizione islamica contro il terrorismo', un’iniziativa lanciata dai sauditi nel 2015, è ancora bloccata. La Coalizione non comprende paesi a maggioranza islamica sciita, tanto da farla apparire, innanzitutto, come un’alleanza anti-Iran. La Malesia, pur favorevole, non appare tra i possibili contributori militari, mentre l’Indonesia non vi ha aderito. Da una prospettiva geopolitica, le tappe di re Salman in Cina e Giappone sono di primo piano. Pechino, di fronte al conflitto in Siria, fatica sempre più a mantenere la tradizione equidistanza tra Arabia Saudita e Iran e ha appena bloccato (insieme a Mosca) la risoluzione Onu che avrebbe sanzionato l’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad. Riguardo a Tokyo, non sfugge che il premier Shinzo Abe sia stato il primo leader straniero a recarsi dal neoeletto Trump e potrebbe dunque giocare il ruolo del facilitatore, laddove ve ne fosse bisogno, tra sauditi e statunitensi.

Il viaggio di re Salman è poi una grande vetrina culturale per l’Arabia Saudita: il paese dei luoghi santi dell’Islam (Mecca e Medina), nonché sede del grande pellegrinaggio annuale, è intenzionato a ribadire la sua leadership nella comunità islamica mondiale. Sono migliaia gli immigrati asiatici che lavorano nel Golfo, specie nel settore privato e negli eserciti: le loro rimesse rappresentano un’importante fonte di entrate per i paesi d’origine, come nel caso indonesiano (oltre il 40% di esse proviene da lavoratori impiegati in Arabia Saudita). I troppi finanziamenti privati partiti dal Golfo verso le organizzazioni jihadiste hanno logorato l’immagine di Riyadh presso gli alleati e le opinioni pubbliche occidentali. Il regno saudita, anch’esso bersaglio di cellule che si rifanno al sedicente Stato Islamico (Daesh), prova ora il contrattacco mediatico: «Bisogna combattere uniti il terrorismo» ha qui scandito il re. In Malesia, verrà inaugurato il King Salman Centre for International Peace, con l’obiettivo di contrastare l’estremismo religioso e saranno aperte nuove scuole coraniche (con insegnamenti in arabo).

Infatti, il veleno jihadista si diffonde anche nel sud-est asiatico: le piccole isole Maldive, altra tappa del re saudita, sono tra i primi paesi islamici per numero di foreign fighters in proporzione agli abitanti (200 su 400 mila, secondo il Soufan Group). In Indonesia, Daesh ha rivendicato l’attacco di Jakarta del 2016, ma più in generale è il clima di intolleranza a propagarsi, come dimostra la vicenda del governatore della capitale, il cristiano-cinese Purnama, accusato di blasfemia. A Bali (Indonesia), re Salman ha dialogato, in arabo, con un prete cattolico indonesiano e ha poi partecipato a un evento con i leader delle 28 comunità religiose del paese. Dunque, sono molte le ragioni del tour asiatico del re saudita: non ultima, dimostrare che il sovrano gode ancora di buona salute, nonostante le indiscrezioni. Questo viaggio, che fotografa una strategia coltivata negli anni, vuole ora mandare un segnale forte: dopo aver puntato troppo (e male) sugli attori non-statali (milizie), nonché confidato nell’appoggio incondizionato degli Stati Uniti, Riyadh torna a fare politica estera cercando di aggiustare il tiro rispetto al passato.

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