mercoledì 22 gennaio 2014
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Gli oltre trenta fra Paesi e organizzazioni  che da oggi daranno avvio alla Conferenza internazionale di pace sulla Siria (familiarmente: "Ginevra 2") si troveranno di fronte ad almeno quattro nodi da sciogliere: la sorte del presidente Bashar al-Assad; la nascita di un esecutivo di transizione; la necessità di un cessate il fuoco per consentire l’ingresso di aiuti umanitari nelle zone più colpite dalla guerra civile; lo scambio di prigionieri fra le fazioni in lotta. Tre anni di guerra senza quartiere con crudeltà ed efferatezze da ambo gli schieramenti, centocinquantamila morti, quattro milioni di sfollati, 2 milioni e mezzo di profughi, città, villaggi, infrastrutture distrutti o impraticabili, una diffusa insicurezza presso la popolazione siriana e una grande incognita su un negoziato che parte sotto incerti auspici e, anzi, con un larvato pessimismo della ragione, sebbene quasi tutti – dal ministro degli Esteri italiano Bonino al britannico Hague – ritengano che questa sia «l’unica possibilità che abbiamo, anche se sarà una strada lunga, complicata, tortuosa, con ostacoli ogni giorno». La partita, come sappiamo, è molto complicata: Assad non ha nessuna intenzione di lasciare il potere, come vorrebbero le forze ribelli filo-occidentali sostenute da Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati e Francia. Il rais intende viceversa ricandidarsi, forte dell’appoggio di Russia e Cina (e del loro potere di veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu).Difficile anche assicurare un governo di transizione misto, come la precedente conferenza di Ginevra aveva stabilito: le parti in causa non vogliono esponenti troppo vicini ai rispettivi leader e giusto ieri il blocco più consistente dell’opposizione siriana in esilio, il Consiglio Nazionale, è uscito dal cartello che raggruppa il fronte moderato anti-Assad. Discordia anche sul cessate il fuoco: Washington pretende sia esteso all’intero Paese, Assad alla sola Aleppo, la Coalizione nazionale siriana (quella filo–occidentale) invece si oppone e le fazioni jihadiste vicine ideologicamente ad al-Qaeda non lo rispetterebbero. Su tutti, la voce – inascoltata, per ora – della Santa Sede, che chiede con forza un cessate il fuoco immediato e senza condizioni, un corridoio per gli aiuti umanitari e l’avvio di una riconciliazione con il dialogo interculturale e interreligioso. Unico possibile lotto d’intesa (per ora), lo scambio di prigionieri. Un po’ poco.Ma ritenere che una conferenza di pace sulla Siria possa risolvere i problemi del più vasto scacchiere mediorientale sarebbe pura illusione. La guerra siriana, per cominciare, si combatte anche fuori dai suoi confini. Solo ieri l’ennesima autobomba a Haret Hreik (quartiere di Beirut a maggioranza cristiano-sciita ma virtualmente controllato dal movimento Hezbollah) ha seminato morte e desolazione in un ping-pong del terrore scandito da reciproci attentati fra i sunniti oppositori di Assad e gli sciiti che lo sostengono attraverso il Partito di Dio. Con la complicazione che violare le roccheforti hezbollah sono i qaedisti irriducibili del Fronte al-Nusra, che hanno stabilito in Libano il loro campo di battaglia secondario facendo del Paese dei Cedri una propaggine del conflitto siriano. Ma anche l’Iran, principale sponsor ideologico di Damasco nonché generoso fornitore di armi al regime di Assad, fa parte integrante di questo Great Game mediorientale. Israele non crede alle buone intenzioni di Teheran, che a seguito degli accordi raggiunti (sempre a Ginevra) nel novembre scorso si è vista allentare da ieri le sanzioni internazionali. «Il programma nucleare iraniano – ha detto senza mezzi termini il premier Netanyahu – deve essere fermato e sarà fermato». Né tuttavia giova alla ricerca di un compromesso in grado di bloccare la destabilizzazione crescente dell’area la maldestra manovra dell’Onu, che dapprima ha invitato l’Iran alla conferenza e successivamente si è rimangiato l’invito. Motivazione ufficiale, Teheran non ha sottoscritto la "precondizione" sul governo di transizione, ma ciascuno sa che fortissime sono state le pressioni saudite e americane su Ban Ki–moon perché ritirasse l’offerta. «Tutti sanno che senza l’Iran le chance di trovare una soluzione sulla Siria sono molto poche», fanno sapere a Teheran. E non vi sono dubbi, in proposito: senza il concorso di tutti difficilmente si avrà una soluzione. In Siria, come nell’intero teatro mediorientale.
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