giovedì 9 giugno 2011
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È ancora lontana dalla sua conclusione la campagna di Libia intrapresa dalla Nato in esecuzione della Risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La struttura militare che il colonnello da mesi sta utilizzando senza risparmio contro la sua stessa popolazione non è ancora stata ridotta all’impotenza. Proprio in queste ore, del resto giungono allarmanti notizie da Misurata, circa l’afflusso di truppe leali a Gheddafi che si appresterebbero ad assaltare la città. Contemporaneamente, il segretario generale dell’Alleanza, Rasmussen, sta svolgendo un vero e proprio forcing sui Paesi membri, allo scopo di aumentare il contributo di ognuno a favore di un’impresa che si sta rivelando più impegnativa di quanto molti avessero intimamente creduto o per lo meno sostenuto pubblicamente.Può sembrare incredibile che dopo 10.000 missioni, e oltre 1.800 obiettivi militari colpiti, l’alleanza che raccoglie le economie tecnologicamente più avanzate del pianeta non sia ancora riuscita ad aver ragione della volontà di resistere del Colonnello. Ma il paradosso è solo apparente, se si considera la limitatezza dei mezzi a disposizione per imporre una no-fly zone "muscolare" su un area molto estesa, oltretutto nella sostanziale assenza di truppe di appoggio sul terreno. La scelta di ridurre al minimo le perdite tra la popolazione civile, perseguita con fermezza nonostante gli inevitabili tragici fallimenti, ha sicuramente concorso ad allungare i tempi della campagna e a rendere evidente come il potenziale bellico dei Paesi europei sia incredibilmente limitato. Con budget che mediamente sfiorano appena l’1% del Pil, e con il quasi decennale impiego in Afghanistan (a sua volta preceduto da altri interventi in teatri operativi disparati dai Balcani all’Africa sub sahariana, al Libano all’Iraq), sarebbe stato stupefacente il contrario. Al punto che si pone con forza crescente la questione di una razionalizzazione e centralizzazione di alcune componenti comuni della difesa europea, così da liberare risorse per dotare i Paesi europei di una capacità di proiezione militare adeguata alle sfide presenti e future.D’altro canto, mentre le resistenze politiche a farsi carico di una maggiore responsabilità nel Mediterraneo non accennano a diminuire – spesso camuffate da un atteggiamento pseudo-pacifista, come nel caso della Germania –, la prospettiva di inviare un limitato contingente di truppe di terra, in grado di rendere risolutiva l’azione dei bombardamenti, si fa di ora in ora meno irrealistica. Come sempre, una volta che si sia deciso di passare all’impiego dei mezzi coercitivi, occorre trovare la giusta via tra l’incremento graduale della pressione militare, un’adeguata risolutezza e l’azione diplomatica: cercando contemporaneamente di minimizzare i danni collaterali e di non trascinare all’infinito un’azione che presenta rischi imprescindibili e connaturali.Credo tuttavia che possa risultare chiaro a tutti che se le truppe del Colonnello non fossero state bersagliate continuamente negli ultimi due mesi e mezzo, oggi staremmo inutilmente commemorando le migliaia di vittime di Misurate e Bengasi, e fronteggeremmo ondate di profughi davvero bibliche, ben più grandi di quelle che in questi giorni si stanno abbattendo sulle nostre coste. In Libia la comunità internazionale ha potuto intervenire per la semplice ragione che la rilevanza strategica del Paese è semplicemente nulla. Il crollo del regime di Gheddafi, persino nell’ipotesi di una divisione della Libia in due diverse entità statuali (ufficialmente finora negata con recisione), non avrebbe nessuna conseguenza sugli equilibri del Maghreb. Una situazione ben diversa da quella che caratterizza altri Paesi nei quali la repressione delle rivolte interne avviene con devastante brutalità, come la Siria o lo Yemen, e che rende così difficile qualunque intervento internazionale, non necessariamente di carattere militare.E il petrolio? Semplicemente non c’entra nulla. Combattere una guerra è il modo peggiore per accaparrarsi il controllo delle risorse petrolifere di un Paese: salvo che non si pensi di annetterlo, come tentò di fare Saddam Hussein con il Kuwait nel 1990. Per capirlo è sufficiente guardare a chi sono finite le concessioni per i più ricchi campi petroliferi iracheni: a compagnie russe, malesi, norvegesi, anglo-olandesi, francesi e persino angolane; non americane.
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