martedì 10 giugno 2014
Brasile 2014, la vera «partita» vale più della coppa
 di Massimiliano Castellani
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​Scusate, ma è qui la festa? E allora dov’è il popolo allegro del samba e del carnevale, quello poetico e melodioso della bossa nova? E la Torcida infuocata della Seleçao pentacampeon? Si sono nascosti tutti… Scioperano o, peggio ancora, se ne stanno rintanati nelle loro "trincee-favelas", pronti a scattare sul piede di guerra. Il Brasile a 72 ore dall’inizio del suo secondo Mondiale – dopo quello del drammatico Maracanazo, 1950 – pare sonnecchiare, ad occhi sgranati. Impaurito. A San Paolo minacciano grande manifestazione "No Copa" per giovedì 12 giugno, giorno del debutto del Brasile contro la Croazia, allo stadio Itareguao. Calma piatta come il mare a Rio de Janeiro.
Sotto il cielo di Copacabana sono poche le bandiere verde-oro esposte ai balconi. Da Botafogo a Ipanema, non si odono cori di gioia dei tifosi e ancor meno si vedono striscioni inneggianti a quel sogno chiamato "sexto titulo". È presto? «Speriamo almeno che a Rio arrivino quei 500mila turisti-tifosi che sono stati annunciati…», dice preoccupato Marius, titolare di uno dei ristoranti più frequentati di Avenida Atlantica. È un andamento molto lento quello a cui assistiamo. Ma congenito, è quello che il drammaturgo carioca, Nelson Rodrigues, identifica come il "complesso dei Vira Litas", ovvero dei cani randagi che girano le lattine per la strada. Il brasiliano è un po’ così, ci prova a sognare in grande e a lottare, ma poi puntualmente si arrende alla sua fragilità da "ex ultimo del terra" e si ritrova quasi sempre schiacciato dalla scarsa attitudine a credere in se stesso, quindi incapace di fare "squadra". E il futbol, come lo chiamano qui, secondo la grande anima della democrazia corinthiana, il tacco rivoluzionario Socrates Brasileiro Sampaio, è lo specchio fedele del Paese: «Il calcio brasiliano, fuori e dentro il campo dice molto su chi siamo, i nostri valori, le dinamiche sociali e le relazioni di potere. È una lezione pratica di cosa sia il Brasile».
Il brasiliano ama come nessun altro questo pallone che gli ha donato, come un po’ a tutti, un inglese, Charles Miller, ma è consapevole che con i suoi artisti del futbol bailado – appreso ancora nei campetti improvvisati sulle strade e sulle spiagge – ha poi ripagato il mondo con il calcio romantico, di poesia. Questo "dono divino" ora ha assunto un costo infernale, insostenibile per le misere tasche del popolo che, sotto la presidenza Lula, ha visto 20 milioni di persone uscire dalla povertà. Sono loro i primi, gli ex sommersi ora salvati, a temere che trascorso questo mese di sbornia Mundial possano pagarla molto cara e sul "tremendo" lungo periodo. Due numeri bruciano sulla pelle del cittadino: i 13 miliardi e mezzo di dollari – che a detta degli economisti sforeranno ulteriormente diventando 16, quindi oltre i 5 miliardi di budget preventivato – investiti per organizzare in casa loro la Coppa del Mondo, e gli oltre 200 milioni spesi per ognuno degli 8 nuovi stadi, sui dodici impianti delle rispettive città sedi mondiali. Stadi consegnati in ritardo, slittamenti comunque fisiologici per una rassegna di questo tipo. La vera piaga sono gli sprechi assurdi per le infrastrutture (autostrade, aeroporti), molte rimaste sulla carta e un "gigantismo olimpico" contagioso.
Nessuno dimentichi che Rio nel 2016 sarà anche sede dei Giochi e il prezzo per gli ammodernamenti del nuovo Maracanà e della linea 4 della metropolitana che porterà dentro la pancia dello stadio hanno aperto un buco all’erario da mezzo miliardo di euro. Soldi che con la solita promessa da mercante, il Governo si era impegnato a non fare ricadere sulla spesa pubblica. Così non sarà. Ma è il finale di un film già visto e che si gira con precisione chirurgica ogni quattro anni, e ormai solo per i Mondiali o per le Olimpiadi. Per questo in Sudafrica nel 2010 gli steward fomentarono la sommossa, subito sedata dalla polizia e prima dei Giochi di Londra 2012, gli autisti dei bus incrociarono le braccia. A San Paolo durante la Confederations Cup del 2013, un rincaro di spiccioli per il biglietto dei mezzi pubblici innescò un’ondata anomala di protesta, con oltre mezzo milione di brasiliani che si rovesciarono in piazza. La scintilla scoppiò a Porto Alegre e infiammò subito San Paolo, Belo Horizonte, Fortaleza, Manaus e naturalmente Rio. Tutte unite al coro: «Fifa go home. Nao Vai ter Copa».
Il fronte antimondiale ora è capeggiato dalle frange più esasperate del ceto medio o di quello che resta nel primo Paese, almeno in ordine alfabetico, dei "Brics" (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), la poderosa sigla delle potenze economiche in ascesa. Un’economia, quella brasiliana, in cui, nonostante gli 825 miliardi di real (circa 275 miliardi di euro) investiti nella sanità e nell’istruzione, non si vedono gli effetti e porta i professori di scuola a rivendicare vuoti amministrativi e le discriminatorie e intollerabili «quote universitarie per gli studenti neri». A Rio i prof hanno manifestato civilmente, ma la Bope, la polizia militare li ha malmenati come fossero hooligans da stadio. In effetti, nei sit-in spesso si infiltrano davvero gli ultrà. Così come i temibili black-bloc che con le loro violenze eclatanti e gratuite, rovinano le campagne socialmente utili – per il rispetto dei diritti civili e contro il caro vita – portate avanti dal Movimento trabalhadores e sem teto (lavoratori senza casa). A scendere in piazza per il futbol ci sono gli attivisti del Frente Nacional dos Torcedores, i quali chiedono «un calcio più umano e meno elitario, rispetto a quello che hanno creato i "dittatori" della Fifa».Tutti messaggi controllati e repressi dall’esercito – schierato dalla presidentessa Dilma Rousseff – con 180mila militari in mimetica antisommossa. Slogan e battaglie politiche che al grande orecchio delle mille favelas di Rio – con parabola puntata su tutto il Mundial minuto per minuto – entrano ed escono con la rapidità di un dribbling di Neymar. Al Complexo do Marè, l’ultima favela bonificata dal "processo di pacificazione" (Upp) i suoi 130mila abitanti, anche se il sistema fognario è ancora inesistente e neppure un real è arrivato a migliorare le condizioni di sussistenza, stanno solo aspettando un segno: il calcio d’inizio di Brasile 2014.
Anche per i 200mila sgomberati per far posto agli stadi della Copa, lo show deve assolutamente cominciare e in tanti la pensano come l’anziana della favela, la signora Mina: «Tra il Bope – la polizia militare che vuole ripulire Marè, e i narcos, io mi sento più tranquilla con questi ultimi... Perché i poliziotti ammazzano senza guardarti in faccia». È quello che è accaduto il 22 aprile alla favela di Pavao-Pavozinho al ballerino Douglas Rafael da Silva, massacrato solo per essere lì, in uno degli innumerevoli insediamenti abusivi delle oltre mille favelas di Rio. Mille, come le facce di un Paese da sempre nel pallone e al quale il dottorao Socrates, prima di andarsene per sempre, aveva diagnosticato (con sette anni di anticipo scrivendo dalle colonne del Folha de Sao Paulo): «Ci sembra improbabile che il Mondiale di calcio possa portare delle trasformazioni nella realtà sociale del nostro Paese, che è quello che a noi (che sogniamo un Brasile più giusto e più umano) interessa».
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