venerdì 22 ottobre 2010
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«Dedico questo riconoscimento a chi si trova dietro le sbarre per il suo impegno a favore della libertà. Ai dissidenti che ogni giorno, con la penna, il pc o le parole sfidano senz’armi la polizia politica». Il Premio Sakharov, assegnato quest’anno dall’Europarlamento al dissidente cubano Guillermo "Coco" Fariñas, potrebbe forse essere uno degli ultimi chiodi sulla bara del decrepito regime dell’Avana.Il quarantottenne Fariñas ha digiunato per 135 giorni in segno di protesta nei confronti dei detenuti politici ancora rinchiusi nelle prigioni dei fratelli Castro e minaccia di riprenderlo se non potrà recarsi a Strasburgo. Dopo Oswaldo Payá e le Damas de Blanco (il movimento di opposizione che raduna le mogli e i familiari dei detenuti per reati d’opinione), è la terza volta che Cuba viene marchiata a fuoco dal dito accusatore dell’Europa, che idealmente si aggiunge a quel Premio Nobel per la pace recentemente conferito al dissidente cinese Liu Xiaobo. Un modo forte e inequivocabile per ricordare a quei Paesi che ne fanno strame che la libertà di parola e di pensiero è il primo ingrediente della democrazia. Nel 2006, quando la malattia lo rese a lungo invalido, Fidel Castro cedette il potere al fratello Raul, con ciò lasciando prefigurare l’avvento di una stagione di transizione morbida verso la democrazia.Lo stesso Raul, uomo prudente quanto incolore a petto del leggendario fratello, fece sperare al mondo occidentale in una misurata ma graduale apertura sia nei confronti del libero mercato sia per quanto concerne i diritti umani. Ma le democrazie occidentali, dall’appeasement di Neville Chamberlain a Monaco alla breve illusione coltivata da George W. Bush nei confronti dell’Avana, hanno il vezzo inguaribile di trasformare i propri intimi desideri in convinzioni. La realtà come sempre si rivela assai più brutale: Cuba – al di là di ogni sussulto agiografico sempre caro a quel terzomondismo di marca europea che ebbe grande fortuna per un paio di decenni e alle ricorrenti santificazioni di eroi popolari come Ernesto Che Guevara o degli etnocaudillos come Hugo Chavez o Evo Morales – è e rimane uno Stato totalitario, un recinto di irrealistica ideologia già macinata e ampiamente digerita dalla Storia, dove le libertà individuali sono esigue (da quella d’impresa a quella di parola) e la struttura della società, pur avvalendosi di un lodevole sistema sanitario, non è dissimile da quella che si incrocia nelle meste contrade del Terzo Mondo.Da questo pantano di disservizi, povertà, corruzione, borsa nera e prostituzione tenuto in piedi a forza di slogan anticapitalisti (il più prezioso alleato di Castro è sempre stato in realtà il bloqueo l’embargo decretato dagli Usa nei confronti dell’isola, che ha alimentato negli anni l’orgoglio nazionale) non si riesce a uscire. O per lo meno non fino a quando Fidel Castro sarà ancora in qualche modo al potere. È vero peraltro che recentemente egli stesso ha criticato il modello economico cubano, ritenendolo non più all’altezza dei tempi. Ma questo tardivo autodafé è ben poca cosa di fronte al disastro sociale e morale di una nazione bellissima e fiera, da cui nelle mattine di brezza si riesce a scorgere dal Malecón – il lungomare dell’Avana – il profilo della Florida, il sogno proibito di migliaia e migliaia di profughi e di espatriati: perfino una figlia di Fidel vive laggiù, a Miami, a 60 miglia dalle coste cubane. Nonostante con calcolata scaltrezza Raul Castro periodicamente ne lasci libero qualcuno, vi sono ancora molti cubani dietro le sbarre.Il loro reato è sempre il medesimo: il dissenso nei confronti del partito, del governo, dei principi rivoluzionari. Per questo, per un pensiero non conforme, stanno pagando di persona. E questo è lo scandalo più grande. Mai come ora ci viene in mente una frase, scritta agli amici nel 1990 da Reinaldo Arenas, poeta cubano morto suicida dopo una lunga prigionia nelle carceri di Fidel: «Vi lascio in eredità tutte le mie paure, ma anche la speranza che Cuba sia libera». Una speranza che nonostante tutto continuiamo a nutrire anche noi. Più che mai.
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