sabato 25 settembre 2010
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Alan R. Wagner e Ronald C. Arkin, del Georgia Institute of Technology di Atlanta, stanno cercando di costruire robot capaci di mentire. Per ora sono in una fase molto preliminare: due robottini giocano a rimpiattino e quello che si nasconde semina falsi indizi sul luogo del nascondiglio per ingannare il compare che lo cerca. Lo scopo ultimo della ricerca è la produzione di robot capaci di dire le cosiddette bugie a fin di bene, o bugie pietose, che a volte si dicono per esempio agli ammalati gravi. Senza entrare in particolari tecnici, la notizia si presta ad alcune considerazioni. La capacità di mentire è quasi esclusivamente umana. Altre specie animali (per esempio certi uccelli e certi mammiferi superiori) possono adottare comportamenti mendaci atti a trarre un vantaggio o a evitare un danno, ma a quanto pare in tali condotte non si ravviserebbe l’intenzionalità consapevole (la "malizia"), quanto piuttosto una programmazione vicina all’istintualità. Inoltre la capacità di mentire è fortemente correlata all’attività verbale, di cui l’uomo è titolare quasi esclusivo. Per esempio il "gioco dell’imitazione"  – in cui un uomo tenta di farsi passare per una donna fornendo risposte menzognere alle domande di un esaminatore, gioco sul quale il matematico e logico inglese Alan Turing basò il suo esperimento concettuale del 1956, mirante a rispondere alla domanda se una macchina possa pensare – è basato essenzialmente sulla capacità di dire bugie. Finora nessun programma per calcolatore (algoritmo) è riuscito neppure lontanamente a superare il criterio di Turing, cioè a rispondere alle domande di un esaminatore dicendo bugie tanto convincenti da farsi passare per un essere umano. Probabilmente questa incapacità deriva dalla natura piuttosto rigida dell’algoritmo. Rigida non nel senso di non offrire anche guizzi di imprevedibilità (esistono algoritmi aleatori e algoritmi evolutivi), ma di essere confinato quasi esclusivamente alla dimensione sintattica, cioè alla correttezza interna delle istruzioni. Agli algoritmi manca (quasi del tutto) la semantica, vale a dire la corrispondenza con i fatti del mondo esterno. Ed è sulla semantica che è basata l’intenzionalità, in particolare la volontà di mentire con "piena avvertenza e deliberato consenso". Gli algoritmi dell’intelligenza artificiale (IA) sono sostanzialmente ciechi, ed è questo, tra l’altro, il motivo per cui il robot costituisce un passo avanti rispetto all’IA: il robot, mediante i suoi sensi artificiali, interagisce con un ambiente esterno, anche se in modo molto meno ricco e variegato degli umani. Ma al di là delle difficoltà di passare da un comportamento mendace elementare come quello descritto sopra a menzogne linguistiche raffinate quanto le nostre, si impone un’altra riflessione, di carattere etico. Il narcisismo antropocentrico degli umani è talmente irriducibile che tutti i robot, replicanti, cyborg e così via, protagonisti dei romanzi e dei film, soffrono perché non sono veramente umani e vorrebbero diventarlo. Ma c’è da chiedersi se questo lancinante desiderio debba estendersi anche ai lati più negativi della nostra natura, come appunto la capacità di mentire a fin di male. Alcuni studiosi di robotica pensano che i robot possano evolversi verso un livello etico superiore al nostro, evitando l’egoismo, l’avidità, la violenza che purtroppo contraddistinguono la nostra specie. Ma costruendo i robot mendaci sembra che vogliamo precludere alle nostre creature di imboccare questa strada, tenendole avvinte al nostro retaggio.
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