giovedì 20 gennaio 2011
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Qualcuno ha azzardato un parallelo con lo storico viaggio del presidente Nixon nel 1972, che normalizzò le relazioni fra Washington e Pechino dopo decenni di reciproca sordità. Forse il vertice iniziato ieri fra Barack Obama e Hu Jintao non avrà la stessa portata rivoluzionaria, non fosse per il fatto che è l’ottava volta che il presidente cinese e il primo inquilino della Casa Bianca si incontrano, certo è che i due affittuari di quel condominio che usiamo chiamare G2 sono chiamati a un’intesa obbligata e al tempo stesso a una ridefinizione dei propri rapporti.Del gigante cinese sono stranoti i primati economici, dalla crescita (è la seconda economia del mondo dopo aver superato il Giappone) al record nella bilancia commerciale (primo esportatore del mondo, secondo importatore assoluto), nelle riserve valutarie (ha il più grande stock mondiale di valute estere), nell’incetta di obbligazioni (oltre ad aver in portafoglio una quota monstre del debito americano sta comprando a man bassa anche i debiti sovrani europei), nelle grandi e strategiche riserve di metalli e "terre rare", nella concorrenza alla Banca Mondiale per gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo, senza contare l’immensa forza lavoro e il potenziale bacino di consumatori che si annida in una società di un miliardo e trecento milioni di abitanti in vorticosa espansione.Chiamarla "iperpotenza", come cominciano a fare molti analisti, è forse l’espressione più consona a un Paese che all’espansione economica affianca una vigorosa impennata della propria influenza geopolitica ponendosi non di rado a diretto confronto con gli interessi statunitensi, dal Pacifico sudorientale alle Coree, dall’Africa all’America Latina.Con questa Cina, di cui Hu Jintao è presidente in scadenza, dunque molto rappresentativo ma poco disposto ad assumere impegni a lungo termine, Obama deve fare i conti. Sul piatto il presidente americano metterà istanze politiche e diritti umani (il Tibet, Lu Xiaobo, la libertà su internet), ma anche questioni economiche cruciali (la sopravvalutazione dello yuan, lo shopping sfrenato di materie prime) e un’infinità di piccole e grandi controversie.Ma quanto peserà la forza dell’America sulla bilancia? Di un Paese cioè il cui segretario al Tesoro Geithner ha fatto balenare di recente la possibilità di una bancarotta del debito pubblico mentre i cinesi rincaravano la dose dicendo apertamente (in compagnia del Brasile) che forse l’era del dollaro è finita e bisogna trovare altre valute di riferimento per gli scambi mondiali?«Mutuo rispetto e mutua fiducia», reclama Hu Jintao, «perché dobbiamo cogliere l’opportunità di lavorare insieme mano nella mano». Il suggello, accordi commerciali per 45 miliardi di dollari. Ma la domanda di fondo resta: la Cina - che del modello democratico occidentale ostenta un trasognato disinteresse, premiato peraltro dai fatti: riesce a crescere dell’8 per cento annuo rimanendo un Paese autoritario e dalle libertà limitate mentre la Wall Street liberista affondava - è da considerarsi un avversario degli Stati Uniti o soltanto un concorrente? E qui, per uno di quei magici paradossi che rendono l’economia una scienza asistematica (i premi Nobel in materia raramente scoprono o inventano qualcosa, semplicemente indovinano cicli e scorgono prospettive), dobbiamo riconoscere che America e Cina non possono stare l’una senza l’altra: chi comprerebbe i bond americani se non Pechino? Chi ha finanziato l’uscita di Wall Street dalla grande crisi dei mutui subprime? E chi sull’altro versante se non gli americani sono così avidi consumatori dei prodotti cinesi da dar vita a una bilancia commerciale da 400 miliardi di dollari all’anno? E chi se non Pechino potrebbe fornire ossigeno alle imprese statunitensi aprendo loro il proprio mercato interno?Non è difficile capire come l’iperpotenza cinese e la superpotenza americana - quest’ultima apparentemente avviata verso un lungimirante e calcolato declino - siano in realtà due facce della stessa medaglia. Obbligate a coesistere, costrette a intendersi anche se ora Obama mostrerà un po’ di muscoli e rimetterà i diritti umani al centro dei colloqui. E Pechino fingerà di non sentire.
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